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Home » Esteri

L’architetto israeliano degli Accordi di Oslo: “Distruggere Hamas e cacciare Netanyahu: poi venga la pace con i palestinesi”

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Il giusto contesto internazionale, la volontà di risolvere i problemi insieme, poche aspettative e nessuna precondizione. L'ex ministro israeliano Yossi Beilin spiega a TPI cosa serve per far ripartire i negoziati tra lo Stato ebraico e la Palestina

Yossi Beilin ha fatto della pace tra Israele e i palestinesi la sua missione personale e politica. Deputato per vent’anni, ex segretario di gabinetto di Yitzhak Rabin, ex presidente del partito Meretz ed ex ministro della Giustizia e poi degli Affari religiosi con Ehud Barak, in realtà collaborava con Shimon Peres già alla fine degli anni Settanta, ma nel 1993 – da suo viceministro degli Esteri – fu il vero architetto degli Accordi di Oslo, il primo passo concreto per raggiungere un accordo permanente tra le due parti, poi naufragato anche per la contrarietà della destra di Benjamin Netanyahu e gli attentati spaventosi commessi da Hamas, oltre che per l’omicidio dell’allora primo ministro israeliano. Ci riprovò anni dopo con l’Iniziativa di Ginevra, anch’essa in seguito accantonata. Ma non ha mai perso la speranza, nemmeno ora dopo la mattanza compiuta dal gruppo terroristico nel sud di Israele e la violenta reazione ordinata dal premier dello Stato ebraico contro Gaza.

Tra il 1992 e il 1993, insieme al norvegese Terje Larsen, Lei avviò una serie di colloqui informali con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), qualcosa di impensabile fino ad allora. Perché?
«Cominciò tutto prima delle elezioni del 1992. Allepoca ero nel partito Laburista, che si trovava allopposizione, ma lumore era positivo ed eravamo quasi sicuri di vincere. Da subito pensai che se avessi avuto un incarico politico nel processo di pace avrei stabilito un canale segreto per superare le difficoltà che Israele stava incontrando nei negoziati allora in corso a Washington, negli Usa, con una delegazione congiunta giordano-palestinese, come previsto dalla Conferenza di pace di Madrid dellanno prima».

Qual era il problema?
«I protagonisti non si parlavano seriamente. La delegazione israeliana era stata nominata dall’ex premier Yitzhak Shamir, un ultra-falco. Neanche i palestinesi però si mostravano molto collaborativi, forse perché l’Olp (che ufficialmente non aveva rappresentanti nei colloqui negli Usa, ndr) voleva che fallissero, dimostrando che solo se lOrganizzazione stessa fosse stata coinvolta nei negoziati, questi avrebbero avuto successo».

Allora cosa fece?
«Contattai un paio di Paesi stranieri, alcune persone che conoscevo, chiedendo loro se fosse possibile stabilire lì dei canali segreti, ma mi sembrava tutto abbastanza difficile. Poi però fui nominato viceministro degli Esteri e, come Lei ha ricordato, venne da me, Terje Larsen. Mi propose di andare a Oslo e incontrarmi lì con chi volevo per sondare, senza fretta, le prospettive per la pace. Insomma, mi suggerì un incontro tranquillo, lontano dai riflettori. Anche se il tutto era ancora piuttosto vago».

Aveva finalmente trovato un posto. Poi cosa successe?
«Insieme a Terje Larsen incontrai un amico, Faisal Husseini, che allora per i palestinesi era – per così dire – il “re ufficioso” di Gerusalemme Est. Ci vedemmo nella colonia americana di Gerusalemme, dove portai anche un altro amico, Yair Hirschfeld. Concordammo che, se i laburisti avessero vinto le elezioni e io avessi avuto una posizione rilevante per i negoziati, avremmo organizzato un incontro informale a Oslo».

Un proposito ambizioso.
«Non ci sembrava così allora. Non avevamo in mente un “terremoto” per cambiare il Medio Oriente, niente del genere. Aspettavamo solo un’occasione». 

Ci voleva il giusto contesto politico.
«Certamente. Ma una cosa importante la capimmo».

Quale?
«Faisal Husseini si disse più che felice di partecipare a una simile iniziativa ma sottolineò anche che, se avessimo davvero voluto risolvere i problemi, avremmo dovuto coinvolgere l’Olp. Ma allora in Israele vigeva una legge che vietava ai suoi rappresentanti di incontrare i membri di questa organizzazione». 

Un ostacolo legale. Come si mosse?
«Già da qualche anno, mentre ero all’opposizione, cercavo di cambiare quella norma. Rinnovai quindi i miei sforzi per cambiarla, il che avvenne sotto il governo Rabin. Finalmente ero pronto a organizzare l’incontro, il prima possibile».

Informò il suo superiore, l’allora ministro degli Esteri, Shimon Peres?
«Volevo informarlo del mio piano ma lui mi anticipò. Mi disse che il suo accordo con Rabin per la nomina a ministro degli Esteri prevedeva che non avrebbe partecipato a colloqui bilaterali né con la Siria, né con il Libano, né con la Giordania e nemmeno con i palestinesi. Per questo motivo, il premier gli vietò persino di incontrare Faisal Husseini. Così decisi di non dire nulla e per un po’ il tutto restò segreto, persino per i miei superiori. Ma non andai di persona a Oslo».

Come fece allora?
«Decisi di mandare Hirschfeld, che portò con sé Ron Pundak, e – sebbene fosse segreto – volli dare una veste “accademica” all’incontro. Organizzammo una sorta di seminario, come accadeva spesso. Siccome non potevo essere presente, non partecipò neanche Husseini. Così Larsen propose di contattare Abu Ala (Ahmed Qurei, ndr), che allora tutti consideravano il “Ministro delle Finanze” dell’Olp. Anche se non ha mai avuto ufficialmente un titolo simile, era responsabile del fondo principale dell’organizzazione, il che indirizzò anche la struttura dei colloqui. Insomma, vuole sapere cosa accadde?».

Certo.
«Si trattò di politica pura e semplice, non di strategia».

Si spieghi.
«Politica pura e semplice. Allora Rabin e Peres erano rivali e si odiavano a morte, non si fidavano l’uno dell’altro. Non saprei dire perché ma quando si odia qualcuno, spesso non ci si ricorda nemmeno più il motivo. È in questo contesto che abbiamo continuato i colloqui con i palestinesi. Tenga presente che non conoscevamo nessuno di loro: Abu Ala, che purtroppo è venuto a mancare qualche mese fa, e Maher al-Kurd, anch’egli coinvolto nel finanziamento dell’Olp, erano entrambi membri di Fatah, mentre Hasan Asfour era addirittura un comunista riformista e rappresentava la generazione più giovane».

Vi fidaste a occhi chiusi?
«Non ne avevamo bisogno. Molti sostengono che se manca la fiducia non si può negoziare ma sono solo sciocchezze. La fiducia è un’altra cosa».

Cosa serviva allora?
«L’unica cosa importante era essere sinceri gli uni con gli altri». 

Fu così?
«I colloqui furono molto schietti sin dallinizio. Loro (la delegazione palestinese, ndr) vollero sapere chi rappresentavano Hirschfeld e Pundak. Erano solo due accademici o parlavano per il governo di Israele? Entrambi lasciarono intendere di essere molto vicini a me, non che li avessi mandati io a Oslo ma che eravamo in confidenza. E questo per i palestinesi fu sufficiente. In più, avevamo un vantaggio».

Ossia?
«La segretezza, almeno al principio».

Fu un bene?
«Nessuno sapeva nulla, quindi le parti non dovevano rincorrere il circo dei media e non avevano bisogno di mostrare a nessuno come stavano andando i colloqui».

Come influì sul risultato?
«In pochissimo tempo riuscirono a concordare una bozza di documento che faceva riferimento all’inizio dei negoziati per arrivare all’autogoverno palestinese a Gaza, una concessione importante per i palestinesi».

Quanto ci misero?
«Un paio di mesi, due o tre incontri. Il primo ebbe luogo il 20 gennaio (1993, ndr), tre o quattro giorni dopo la riforma della legge che vietava ai rappresentanti israeliani di incontrare i membri dell’Olp. Dopo due riunioni, verso la fine di febbraio, avevamo già una bozza di accordo, il che sorprese tutti i presenti, compresi – credo – i norvegesi».

Quindi cosa accadde?
«Avevamo un’intesa, ora si trattava di attuarla. Una volta ricevuta, la mostrai a Peres e gli raccontai tutto. Non ne fece un dramma, ma quando gliela inviai aspettò tre o quattro giorni prima di leggerla, nonostante fosse un documento piuttosto breve. Alla fine però la lesse, capì l’importanza di quanto stava accadendo e incontrò anche Hirschfeld e Pundak. Infine, mi disse che avrebbe dovuto mostrarla a Rabin. Allora cominciai ad avere paura che il premier l’avrebbe rifiutata, anche perché Peres gli aveva promesso di non partecipare a colloqui bilaterali con i palestinesi e ora stava per presentarsi con un accordo già pronto. Non partecipai alla riunione ma Rabin diede il suo via libera».

Come mai?
«Nessuno credeva di farne una rivoluzione o di scatenare un terremoto in Medio Oriente. Non si trattava di sbandierare ai quattro venti il primo incontro di Israele con l’Olp, anzi per un po’ continuò a restare un segreto. Poi ne parlai agli americani, naturalmente in modo informale, e l’allora segretario di Stato Usa, Warren Christopher, volle discuterne con Rabin. Il premier confermò gli incontri ma non gli attribuiva molta importanza. In fondo, erano incontri tra accademici e gli accademici si riuniscono, discutono e spesso poi non cambia nulla. Il resto è storia».

All’inizio non c’erano molte aspettative e alla fine tutto naufragò. Cosa resta oggi?
«Il grande evento dei colloqui di Oslo fu la disponibilità al riconoscimento reciproco tra Israele e l’Olp. Fino all’estate del 1993, nessuna delle due parti era pronta a riconoscere storicamente l’altra. Poi arrivarono le famose richieste israeliane, in primis ovviamente fermare il terrorismo. I delegati palestinesi erano pronti a soddisfarle e così, dopo alcuni mesi, quello divenne il principale canale del negoziato».

Qual era la differenza con gli altri colloqui?
«Tutte le persone coinvolte a Oslo, israeliani compresi, credevano davvero nella soluzione due popoli, due Stati”. Anche se, come sapete, il protocollo del 1993 non menziona lo Stato palestinese, tutti noi ci credevamo».

Qual è la lezione da trarne?
«Una delle cose che abbiamo imparato è che un lungo accordo provvisorio si trasforma presto in una trappola perché permette agli estremisti di entrambe le parti di continuare a ostacolare per sempre il processo di pace. Quindi bisogna stabilire un periodo di tempo limitato per negoziare un accordo permanente».

Negoziare con chi?
«Prima di tutto, abbiamo bisogno di un altro governo israeliano. L’attuale esecutivo non ci sarà dopo la guerra. Non c’è alcuna possibilità né giustificazione, a mio avviso, perché Bibi Netanyahu resti primo ministro».

E per i palestinesi?
«Il nuovo governo, spero di centro-sinistra, dovrebbe immediatamente avvicinarsi ad Abu Mazen, il presidente Mahmoud Abbas, che è una persona che crede nella non violenza e nella pace con Israele». 

Non esiste altro interlocutore oltre ad Abu Mazen?
«Non possiamo inventarcelo. Andammo a Oslo a incontrare l’Olp perché era il legittimo rappresentante del popolo palestinese e lo è ancora, anche per la diaspora. Ci fu un tempo in cui Israele provò a trovare altri interlocutori. Tentò persino con i sindaci arabi dei territori, con l’ormai dimenticata Lega dei Villaggi, ma erano tentativi patetici. L’Olp è il nostro interlocutore, che ci piaccia o no, e noi siamo il loro. E finché il suo leader sarà Abu Mazen dovremmo approfittarne per trovare un accordo. Con tutti i suoi difetti, la debolezza politica, l’età e tutto quello che volete, lui è un uomo di pace e uno dei padri fondatori del movimento palestinese. Qualsiasi accordo dovesse raggiungere, il suo popolo lo accetterà. Perciò non lo metterei da parte per cercare altre vie, anzi. Spero che quando sarà sostituito da un altro leader, questi sia disposto a proseguire il dialogo».

Qual è la prossima mossa?
«Porre fine al regime di Hamas a Gaza e restituire all’Autorità Nazionale Palestinese o a un gruppo di Paesi arabi o all’Onu, certamente non a Israele, il governo della striscia. Non si può fare la pace con i palestinesi divisi tra Fatah e Hamas. Quest’ultimo poi non è pronto a concedere nulla. Non riconoscerà mai alcun accordo di pace, nemmeno se la maggioranza dei palestinesi dovesse approvarlo. E lo stesso vale per Israele, governato oggi dalla maggioranza più a destra di sempre, contraria a qualsiasi spartizione della terra. In questo contesto possiamo pure redigere un altro accordo, ma non succederà nulla».

Come può aiutare il dialogo il bombardamento della striscia di Gaza, sotto assedio da oltre 16 anni, e il massacro preannunciato dall’operazione di terra?
«Non si può fare un compromesso con un gruppo terroristico. Su cosa si baserebbe? Non intendo scendere a compromessi sulla mia vita. Stranamente, Hamas è più popolare in Cisgiordania che a Gaza. In un certo senso, questa guerra – che non è contro due milioni di palestinesi – libererà la maggior parte degli abitanti della striscia da una folle dittatura religiosa che vuole fare di Gaza una specie di avamposto iraniano. Finora abbiamo sempre fallito, ma se riuscissimo a mettere da parte Hamas e a ricostruire la striscia avremmo una speranza. Certo non ci ameranno per aver distrutto le loro case ma è per questo che sarà così importante la ricostruzione».

Da dove deve ripartire il negoziato?
«Oggi, a differenza di trent’anni fa, abbiamo già molti accordi. Alcuni ufficiali, altri ufficiosi. Cominciamo da lì».

Nuovi problemi però sono sorti.
«In realtà si sono semplicemente aggravati quelli vecchi. Il maggior ostacolo alla soluzione a due Stati è la questione degli insediamenti e dei coloni, il cui numero dal 1993 è aumentato da circa 90mila a mezzo milione, senza contare Gerusalemme Est».

Come si può affrontare la questione?
«Recentemente, un gruppo di israeliani e palestinesi ha sviluppato un’idea. L’abbiamo chiamata “Confederazione della Terra Santa”, una libera unione tra due Stati sovrani e indipendenti. Il nostro modello è la Comunità europea ai suoi albori, con un processo graduale che porti a istituzioni comuni e quant’altro. Ma non sarà mai una festa di matrimonio».

In che modo risolverebbe il problema?
«Sotto l’ombrello di questa confederazione e dei due Stati, i coloni che si ritroveranno a est del confine e che vorranno continuare a vivere negli insediamenti saranno autorizzati a farlo come cittadini israeliani con un permesso di residenza permanente in Palestina. Al contempo però, uno stesso numero di cittadini palestinesi potrà vivere in Israele con permesso di residenza permanente. Se riuscissimo a farlo, e credo che non sia impossibile, toglieremmo il problema dal tavolo, anche perché – con numeri così grandi – sarebbe molto difficile evacuare i coloni. Inoltre, renderemmo molto più facile a qualsiasi futuro primo ministro israeliano optare per la soluzione a due Stati. Oggi, quando qualcuno si dice favorevole a tale opzione è come se parlasse del nulla. Tutti si chiedono come ci si possa arrivare».

Ma il primo passo è che Israele riconosca uno Stato palestinese indipendente.
«Mi piacerebbe molto, ma non credo che il primo passo sia questo. È un’altra lezione che abbiamo imparato a Oslo, confermatami da Yasser Arafat, con cui ebbi lunghe discussioni proprio su questo tema».

Perché no?
«Una volta Arafat mi disse: “Non abbiamo bisogno di un vostro riconoscimento dello Stato palestinese. Ci sono già più di cento Paesi membri dell’Onu che ci riconoscono. Ma se proclamassimo oggi la nascita di uno Stato palestinese, il mondo ci abbandonerebbe subito pensando di aver ormai risolto il problema. Avremmo il nostro Stato, riconosciuto da tutti e poi ci ritroveremmo con solo il 40% della Cisgiordania. Non ho intenzione di rendervi la vita più facile, voglio che ci restituiate la nostra terra e che solo allora riconosciate lo Stato palestinese”. Ecco perché, ogni volta che qualcuno mi chiede se sia importante riconoscere lo Stato palestinese, io rispondo: perché no? Sarei disposto a farlo anche subito. Ma cosa risolverebbe?!».

Cosa dovrebbero fare allora le parti?
«La cosa migliore è presentarsi ai negoziati senza nessuna precondizione. Sediamoci insieme e vediamo cosa possiamo fare. Non c’è una vera ragione per non farlo, perché loro hanno bisogno di pace e anche noi».

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