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Home » Esteri

Ma l’Iran era davvero vicino a sviluppare la bomba atomica?

Immagine di copertina
Credit: AGF

Trent’anni di allarmi da Israele e Usa, malgrado i dubbi e le smentite dell’Onu. Ecco tutti i numeri sulla bomba di Teheran che (ancora) non c’è e perché Trump e Tel Aviv non sono riusciti a fermare il programma nucleare della Repubblica islamica

La possibilità che la Repubblica islamica dell’Iran sviluppi una bomba atomica, da sganciare potenzialmente su Israele, sembra quasi un’ossessione per Benjamin Netanyahu, almeno andando a riguardare gli ultimi trent’anni di dichiarazioni contro il programma nucleare di Teheran. La prima volta che ne parlò in un discorso pubblico fu nel lontano 1992, quattro anni prima di esordire alla guida del governo. «Entro tre o cinque anni, possiamo presumere che l’Iran diventerà autonomo nella sua capacità di sviluppare e produrre una bomba nucleare», disse allora Netanyahu alla Knesset, una posizione ribadita più volte in tutte le sedi nazionali e internazionali. Trentatré anni dopo, la giustificazione dell’attuale guerra in corso contro Teheran è ancora la medesima, anche se è stato lo stesso direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) Rafael Grossi a smentirlo in un’intervista alla Cnn: «Non avevamo alcuna prova di uno sforzo sistematico (dell’Iran) per arrivare a (ottenere) un’arma nucleare». Ma quanto era vicina davvero Teheran a un ordigno atomico e possono Israele e gli Usa impedire alla Repubblica islamica lo sviluppo di un’arma nucleare?

Il manuale del “bombarolo”
Per rispondere alla prima domanda bisogna capire a grandi linee cos’è e cosa serve per sviluppare una bomba atomica. Questo genere di ordigni, sviluppati per la prima volta dagli Stati Uniti alla fine del Secondo conflitto mondiale nell’ambito del progetto Manhattan e poi durante la Guerra fredda in una corsa agli armamenti con l’Unione sovietica, sono di due tipi: a fissione o a fusione.
In linea di principio si tratta di ottenere una massa critica di materiale radioattivo per produrre una reazione a catena incontrollata che porti all’esplosione atomica. Per quanto riguarda le bombe a fissione, come quelle sganciate nell’agosto 1945 dagli Usa su Hiroshima e Nagasaki in Giappone, il processo si basa sulla divisione dei nuclei di atomi pesanti, come isotopi di uranio o plutonio, attraverso un “bombardamento” di neutroni. L’impatto “spacca” gli atomi liberando altri neutroni, provocando una reazione a catena capace di produrre enormi quantità di energia. Quest’ultima, se controllata, può essere utilizzata per generare elettricità nelle centrali atomiche, in caso contrario degenera in un’esplosione nucleare. Per quanto riguarda invece gli ordigni a fusione, la cosiddetta bomba H, questi si basano sull’energia prodotta dall’esplosione di una piccola arma a fissione, che a sua volta provoca la fusione in elio di atomi di deuterio e trizio, due isotopi “pesanti” dell’idrogeno, innescando una detonazione termonucleare. Quindi, oltre a precise competenze scientifiche, fondamentale per sviluppare un ordigno atomico è il materiale fissile: nel caso di una bomba a fissione, plutonio o uranio.

Materiale fissile
Quest’ultimo è un metallo pesante che si trova anche in natura, sotto forma di isotopi U-238 e U-235. Ma, sebbene entrambi siano radioattivi, soltanto il secondo è adatto alla reazione di fissione. Tuttavia l’uranio naturale è composto quasi al 99,3 per cento da U-238, che deve quindi essere “arricchito” per poter essere utilizzato sia a scopi militari che civili. Visto che all’estrazione i due isotopi risultano chimicamente identici, per produrre il combustibile nucleare, il metallo va fatto prima reagire con il fluoro, poi riscaldato fino a raggiungere lo stato gassoso e quindi decantato e “filtrato” migliaia di volte per ottenere, da un lato, l’U-235 ad alto contenuto di uranio chiamato comunemente “arricchito”, e dall’altro il cosiddetto uranio “impoverito” usato anche per le armi convenzionali. Il discrimine tra scopi militari e civili si nasconde proprio nei livelli di arricchimento: le centrali nucleari hanno bisogno di un combustibile che sia costituito dal 5 al 20 per cento da U-235, mentre per le bombe atomiche questa percentuale deve raggiungere quasi il 90 per cento.
La quantità di materiale fissile necessaria a un ordigno però non è trascurabile: servono almeno 40 chili di uranio arricchito per raggiungere la massa critica sufficiente a produrre una bomba. Cifre rilevanti visto che ogni 25mila tonnellate di minerale di uranio estratte, si producono circa 50 tonnellate di metallo, di cui solo lo 0,7 per cento è composto da U-235. Discorso diverso invece per il plutonio, che non esiste in natura in quantità significative ma che è un sottoprodotto artificiale dei reattori o dei test atomici, e di cui bastano soltanto 10 chilogrammi per produrre un ordigno. Ma Teheran ha o aveva a disposizione queste risorse?

Capacità estrattive e tecniche
Cominciamo col dire che, a differenza di Paesi come Canada, Kazakistan, Australia e Niger, l’Iran non possiede grandi giacimenti da cui estrarre uranio in modo economicamente sostenibile, tuttavia le miniere sfruttate e in via di sviluppo hanno risorse sufficienti per sostenere il programma nucleare della Repubblica islamica, sia a scopo civile che, potenzialmente, militare.
Fino al 2016, secondo l’Aiea, l’Iran ha potuto usufruire del giacimento di Gachin, vicino al porto di Bandar Abbas, sul Golfo Persico, dotato di una capacità di circa 21 tonnellate di uranio all’anno. Dal 2017 invece si avvale della miniera di Saghand, nella provincia centrale di Yazd, con una capacità di circa 50 tonnellate annue, mentre negli ultimi due anni Teheran ha annunciato l’apertura di sei nuovi impianti di estrazione, in primis nei complessi di Jang-e Sar e Narigan, quest’ultimo con riserve pari a 650 tonnellate. Come detto, invece, il plutonio non esiste in natura in quantità significative ma può essere prodotto artificialmente. Motivo per cui, nella prima settimana di raid, Israele ha preso di mira sia il Centro di ricerca nucleare di Teheran che il reattore ad acqua pesante di Khondab ad Arak, nell’Iran centro-occidentale, perché in grado di produrre radioisotopi e altri sottoprodotti, compreso il plutonio.
Ma, a fronte di questa capacità estrattiva, serve ben altro per portare avanti un programma atomico. Per distinguere lo sviluppo del nucleare a scopi civili e militari, abbiamo detto, bisogna valutare i livelli di arricchimento dell’uranio ma, una volta estratto, il minerale deve prima essere trasformato in “yellowcake” (letteralmente: “torta gialla”, una miscela giallastra di ossidi di uranio) e quest’ultima deve poi essere convertita in gas esafluoruro di uranio (UF6), la materia prima per le centrifughe che arricchiscono il combustibile nucleare. La Repubblica islamica aveva diverse strutture per gestire quest’intero ciclo. Ad Ardakan, nella provincia centrale di Yazd, e a Bandar Abbas, sul Golfo Persico, Teheran possiede due impianti di produzione di concentrato di uranio (“yellowcake”). Il Centro di tecnologia nucleare di Isfahan, invece, godeva di un impianto di conversione dell’uranio in gas UF6, mentre le centrali di Natanz e Fordow, sui rilievi montuosi centrali dell’Iran, possedevano le centrifughe necessarie ad arricchire il combustibile nucleare. Un ciclo completo che, secondo un rapporto pubblicato a marzo dall’Aiea, permetteva a Teheran di produrre ogni mese fino a 34 chilogrammi di uranio arricchito al 60 per cento. Motivo per cui gli Usa si sono concentrati proprio su questi ultimi tre siti nei loro attacchi. Ma la Repubblica islamica ha o aveva a disposizione abbastanza materiale fissile a scopi bellici?

Dati sospetti
L’ultima relazione trimestrale dell’Aiea, datata 31 maggio 2025, sostiene di no, o almeno non ancora. Al 16 maggio scorso, secondo quanto risulta dalle ispezioni delle Nazioni Unite, Teheran disponeva di almeno 408,6 chilogrammi di uranio arricchito al 60 per cento, tecnicamente non sufficiente per un programma militare.
Ma, come spiegato alla Cnn dal direttore dell’Aiea Rafael Grossi, questa cifra era ad «appena un passo dal 90 per cento necessario a un ordigno atomico». Come osservato dall’ultimo rapporto dell’Aiea infatti, l’Iran è «l’unico Stato non dotato di armi nucleari a produrre» uranio altamente arricchito, tanto che, si legge nel documento, «il significativo aumento della produzione e dell’accumulo» di tale materiale atomico «è motivo di seria preoccupazione».
I livelli di arricchimento e le quantità di uranio accumulate dalla Repubblica islamica, unite alla sua capacità estrattiva e tecnico-scientifica, potevano infatti consentire a Teheran lo sviluppo di armi nucleari. Secondo un’analisi del rapporto dell’Aiea da parte dell’ex ispettore nucleare dell’Agenzia Onu David Albright e del suo Institute for Science and International Security, che oltre vent’anni fa fu tra i primi a smascherare le menzogne sulle armi di distruzione di massa in Iraq, la Repubblica islamica avrebbe potuto «convertire la sua attuale scorta di uranio arricchito al 60 per cento in 233 chilogrammi di uranio di grado militare in tre settimane presso l’impianto di arricchimento del combustibile di Fordow, quantità sufficiente per 9 armi nucleari, pari a 25 chili di uranio militare per arma». Quest’ultimo impianto, secondo Albright, avrebbe potuto produrre la quantità necessaria di materiale fissile per un singolo ordigno «in appena due o tre giorni». «Utilizzando sia Fordow che l’impianto di arricchimento del combustibile di Natanz», si legge nel rapporto dell’Institute for Science and International Security, l’Iran avrebbe potuto «produrre abbastanza uranio di grado militare per 11 armi nucleari in un mese, per 15 (bombe atomiche) in due mesi, per 19 in tre mesi, per 21 in quattro mesi e per 22 in cinque mesi». «L’Iran non ha alcun uso civile né giustificazione per la sua produzione di uranio arricchito al 60 per cento, in particolare a livello di centinaia di chilogrammi», ha denunciato nella sua analisi Albright. «La sua corsa a produrne molto di più, esaurendo rapidamente le sue scorte di uranio arricchito al 20 per cento, che ha un uso civile nei reattori di ricerca, solleva ulteriori interrogativi», ha concluso l’ex ispettore dell’Aiea, secondo cui «il vero intento dell’Iran» era prepararsi «a produrre grandi quantità di uranio militare il più rapidamente possibile, nel minor numero possibile di centrifughe».
Una conclusione contestata ai massimi livelli dall’Agenzia Onu, i cui stessi dati però mostrano una tendenza preoccupante. Se nel 2020 Teheran non produceva ancora uranio altamente arricchito (allora le sue riserve ammontavano a circa 215 chili di uranio arricchito al 3,67 per cento e 2.228 chili al 5 per cento), dall’anno successivo la Repubblica islamica ha cominciato a incrementare i livelli di arricchimento e le relative scorte, passando da 114 chili di uranio arricchito al 20 per cento e 18 kg al 60 per cento del 2021 ai 275 e oltre 408 kg delle ultime rilevazioni. Ma per quanto queste quantità possano sembrare sospette non sono sufficienti per affermare che Teheran stesse effettivamente perseguendo lo sviluppo di un’arma nucleare.

Conclusioni diverse
Già a marzo scorso la direttrice dell’intelligence nazionale degli Stati Uniti Tulsi Gabbard aveva ammesso davanti al Congresso di Washington che le scorte di uranio arricchito dell’Iran erano «ai massimi livelli» e avevano raggiunto una quantità «senza precedenti per uno Stato privo di armi nucleari». Tuttavia, aveva sottolineato Gabbard, la comunità dell’intelligence statunitense «continua a ritenere che l’Iran non stia costruendo un’arma atomica e che la Guida Suprema (l’ayatollah Ali, ndr) Khamenei non abbia autorizzato il programma di armi nucleari che aveva sospeso nel 2003». Una conclusione con cui si è detto d’accordo anche il direttore dell’Aiea.
«Hanno più di 400 chilogrammi di uranio arricchito al 60 per cento, appena un passo dal 90 per cento necessario a un ordigno atomico. Ma per ottenere un’arma nucleare serve ben più di questo materiale», ha spiegato Grossi alla Cnn. «Bisogna metallizzare l’uranio, servono i detonatori e una serie di componenti interni alla testata per farla esplodere. Per non parlare del fatto che si può o non si può volerla testare».
Questione di punti vista? È possibile che i dati sospetti e l’accumulo di materiale fissile mirasse a creare una leva contrattuale in una trattativa internazionale, il che potrebbe anche spiegare la coincidenza temporale dell’accelerazione di questo programma da parte di Teheran dopo il ritiro unilaterale degli Usa di Donald Trump nel 2018 dall’accordo negoziato tre anni prima da Barack Obama. In questi casi però la percezione potrebbe essere altrettanto importante quanto la realtà dei fatti, come ammesso dallo stesso direttore dell’Aiea. «Non è stato certamente di grande aiuto il fatto che alcuni alti funzionari iraniani affermassero di avere tutti i pezzi del puzzle necessari per un’arma nucleare», ha osservato Grossi. Esattamente la giustificazione usata da Israele e Usa per lanciare gli attacchi.

Legalità ed efficacia
«Oggi, l’Iran è più vicino che mai a ottenere un’arma nucleare. Le armi di distruzione di massa nelle mani del regime iraniano rappresentano una minaccia esistenziale per lo Stato di Israele e per il mondo in generale», hanno fatto sapere le forze armate israeliane (Idf) subito dopo i primi raid. «Lo Stato di Israele non ha altra scelta che adempiere all’obbligo di agire in difesa dei propri cittadini e continuerà a farlo ovunque sarà necessario, come in passato». I precedenti, dal punto di vista della legalità internazionale, sono chiari.
Ufficialmente solo otto Paesi ammettono di possedere armi atomiche: Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan e Corea del Nord; mentre Israele non conferma né smentisce le voci di possedere l’atomica. Tuttavia New Delhi, Islamabad, Pyongyang e Tel Aviv non aderiscono al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) che dal 1968 mira al disarmo. A differenza dello Stato ebraico e pur non possedendo ancora ordigni atomici, l’Iran ha ratificato il Tnp nel 1970, impegnandosi a non sviluppare armi nucleari e a collaborare con l’Aiea per un programma civile. Malgrado l’Agenzia Onu abbia rilevato più volte violazioni degli accordi, ostacoli all’accesso degli ispettori negli impianti iraniani e negli ultimi rapporti anche la possibilità di attività legate al nucleare nei tre siti non dichiarati di Lavisan-Shian, Varamin e Marivan, Teheran ha mantenuto i contatti con l’Aiea, smettendo di adempiere agli obblighi previsti dall’accordo sul nucleare del 2015 dopo il ripristino delle sanzioni durante la prima presidenza Trump. Israele invece è già stato accusato una volta dall’Assemblea generale Onu di aver compiuto un «atto di aggressione premeditato e senza precedenti, che ha creato una grave minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale» quando nel 1981 condusse l’Operazione Babilonia contro il reattore nucleare di Osiraq, in Iraq. Ma il problema più grave, forse, per Tel Aviv e Washington è l’efficacia dei raid.
Nella prima settimana, l’aviazione israeliana ha di fatto azzerato i vertici militari iraniani e ucciso almeno 14 scienziati nucleari ma l’obiettivo di impedire la bomba a Teheran potrebbe essere ancora lontano. L’amministrazione Trump sostiene di aver spazzato via la minaccia con il bombardamento di Fordow, Natanz e Isfahan ma la Repubblica islamica afferma di aver evacuato i tre siti prima dei raid. Se il trasferimento delle centrifughe potrebbe non essere stato tecnicamente fattibile con così poco preavviso, come mostrerebbe la mancanza di fuoriuscite radioattive certificata dall’Aiea, l’intervento Usa potrebbe solo aver rimandato il problema perché Teheran avrebbe avuto la possibilità di spostare altrove la maggioranza delle scorte di uranio arricchito, che si trovava proprio a Fordow. Per assicurarsi che non venga utilizzata a scopi militari, Usa e Israele avrebbero dovuto distruggerne l’intera riserva. Non solo: malgrado i raid statunitensi e israeliani, anche la centrale civile di Bushehr potrebbe essere utilizzata per produrre plutonio a fini bellici. Ma un attacco a quell’impianto produrrebbe effetti simili a Chernobyl e non sarebbe facile per nessuno, nemmeno per la Casa bianca, addossarsi una simile responsabilità politica. Al di là della retorica l’unica via per evitare la catastrofe sembra ancora essere la diplomazia.

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