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Il prof. Albanese Ginammi a TPI: “L’Europa è stretta nella morsa tra Usa e Russia. L’unica possibilità è restare uniti”

Immagine di copertina
Credit: AGF

"Se gli Stati Uniti ci voltano le spalle, dobbiamo decidere cosa vogliamo essere: siamo solidali con gli ucraini? E con i palestinesi? Ne va del nostro futuro. E la Cina può essere una scelta obbligata”. Il prof. Albanese Ginammi spiega a TPI come l'Ue può affrancarsi da Trump

Europei “scrocconi” e “patetici”. Prof. Albanese Ginammi che effetto fa scoprire, con lo scandalo “Signalgate”, cosa pensano dell’Europa i vertici dell’amministrazione Usa?
«I leader dei Paesi Ue e i vertici delle istituzioni comunitarie dovrebbero arrabbiarsi e prendere sul serio un’amministrazione americana così aggressiva, anche in senso verbale, contro l’Unione. Bonariamente si attribuisce il Signalgate alla “cialtroneria” dei personaggi nominati dal presidente statunitense, che ha portato al potere figure provenienti più dal mondo imprenditoriale che dalla diplomazia. Ma sia la fuga di notizie riservate sia i commenti sgradevoli costituiscono un fatto grave».

Può esserci un dialogo a queste condizioni?
«Il disprezzo dimostrato, anche pubblicamente, costituisce una rottura fra Usa e Unione, rivelando l’obiettivo di Trump, innanzitutto all’interno degli Usa, e poi in politica estera».

Quale?
«Screditare e spazzare via qualsiasi forma di limitazione del suo potere. Lo abbiamo visto nel suo atteggiamento all’interno degli Usa con le opposizioni, i giornalisti in disaccordo, in generale con ogni forma di dissenso, in una parola, Trump odia la democrazia. La sua impostazione si basa sulla logica del più forte: la legge è lui e qualsiasi ostacolo deve essere cancellato. Il famoso “Tu non hai le carte” rivolto a Zelensky (il presidente ucraino, ndr), oltre alla derisione per come era vestito, serviva a far capire che è il più forte a dettare legge».

Finora Trump non ha incontrato nessuno dei vertici dell’Ue.
«Se non c’è disponibilità a dialogare con l’Europa, è anche perché l’Ue non ha una sola voce. Trump impone dazi e invita gli europei a pagarsi da soli la difesa. Tuttavia, bisogna ricordare che il presidente ci ha abituati alle grandi dichiarazioni. Un conto però è minacciare, un altro è attuare le minacce. È possibile che sia una strategia per cercare di avviare negoziazioni su vari temi da una posizione di forza».

Quindi conviene “Stare calmi”, come ha consigliato la premier Meloni?
«Difficile davanti a questa situazione: da un lato dobbiamo fronteggiare l’aggressività russa in Ucraina e le ripetute interferenze in Europa per dividerla e indebolirla, e dall’altra assistiamo a un inconsueto allineamento tra il Cremlino e la Casa Bianca che apre scenari preoccupanti, anche se dovesse durare poco».

Che intende?
«Potremmo assistere a un cambio completo di Trump da un giorno a un altro, anche nei confronti di Putin, il che apre prospettive ancora peggiori di scontro tra le due maggiori potenze nucleari al mondo. Per il momento concordano nel disprezzare e minacciare l’Ue».

Per il presidente del Senato La Russa la Cina “può essere di grande aiuto” per una “pace giusta” in Ucraina e Medio Oriente. Esiste una soluzione cinese?
«Pechino è ambigua sulla guerra in Ucraina e non solo, ma appare meno disposta degli Stati Uniti a mostrarsi aggressiva. In questo caos, pochi Paesi sembrano affidabili. I rapporti personali fra i leader sono cruciali per trovare soluzioni, ma sono relazioni fragili, dense di diffidenze reciproche. Per la sua storia e la sua proiezione nel tempo, la Cina rappresenta l’emblema di una visione di lungo periodo. Pertanto, pur con molti dubbi, bisogna considerare possibili tutte le strade. Ad esempio, in questo momento l’economia cinese offre una delle vie alternative per la sopravvivenza stessa di alcuni mercati orientati all’export, come quello italiano. Se continuerà a credere nella tenuta di alcuni accordi commerciali, Pechino sarà una scelta forse obbligata».

Noi, invece, che fine faremo?
«L’Europa è stretta in una morsa, da una parte gli Usa, dall’altra la Russia e nel mezzo un’Ucraina abbandonata, disprezzata, trattata — come il resto degli europei — da parassita perché si è fatta aiutare troppo da Biden e ora, per usare le parole di Trump, “non ha le carte in mano”. Allora deve restare in silenzio e fare quello che le viene detto».

Meloni si propone come ponte tra le due sponde dell’Atlantico: può farcela?
«I tentativi di dialogo sono sempre lodevoli ma se si vuole giocare questo ruolo da mediatore con leader come Trump, Putin, Erdogan e Netanyahu è necessario farlo a nome dell’Unione, di una Europa allineata, con la schiena dritta. Non si può prescindere da una credibilità europeista. È una questione di sopravvivenza: in questa fase o si soffre insieme o si rischia di non esistere».

La polemica sul Manifesto di Ventotene non l’aiuta.
«Dei tre partiti principali che sostengono l’attuale Governo, due — Fratelli d’Italia e Lega — si dichiarano non europeisti. Quindi Meloni può provare a mediare con gli Usa e continuare a dirsi “atlantista”, persino dialogare con Russia e Cina, ma se continua con la retorica dell’Ue “brutta e cattiva”, dando ragione al vicepresidente Usa JD Vance, non andrà da nessuna parte. È chiaro che l’Unione così com’è non va bene, che i trattati vanno rivisti con maggiore attenzione alla società e che bisogna abbandonare le rigidità ossessive dei parametri di Maastricht, ma le regole vanno modificate, non calpestate». 

Su cosa si misura questa credibilità?
«Passa soprattutto dal saper rispettare il progetto comunitario, senza per questo negarne le criticità. La crisi delle sue strutture riguarda i più ampi squilibri del capitalismo: in primis le disuguaglianze e la sofferenza di molte persone che ne deriva. Non soffrono solo le società nelle ex colonie danneggiate nei secoli dall’Imperialismo ma anche le masse più povere degli “ex” grandi imperi coloniali. È un’interrogazione al capitalismo e ai suoi problemi, che non si risolve con il nazionalismo economico, che nella prima metà del Novecento sfociò in due guerre mondiali. “Facciamo da soli” non funzionerà. Al contrario, dobbiamo dare nuova linfa vitale al progetto dell’Unione, accogliere altri Paesi che desiderano la libertà e lo sviluppo economico, darle una visione per il futuro, soprattutto per le nuove generazioni, perché da soli sarebbe peggio per tutti».

Ma come possiamo affrancarci dal grande fratello americano?
«Se gli Stati Uniti ci voltano le spalle, arriva il momento di decidere cosa vogliamo essere, quali obiettivi porci come Italia e come Europa. Che Europa è questa? Vogliamo la difesa comune o smantelliamo tutto? Puntiamo a un governo europeo, a una fiscalità comune, a tutti quei pezzi di unione che ancora mancano oppure no? E poi da che parte vogliamo stare nel mondo? Siamo solidali con gli ucraini? E con i palestinesi? Oppure no? Da qui dipende il nostro futuro».

Qual è la risposta giusta?
«L’unica possibilità è restare uniti anche se il dubbio sull’identità europea è legittimo. La Comunità europea è uno dei progetti più ambiziosi della storia. Popoli che si sono fatti la guerra per secoli decidono di unirsi. Mai più un confine, una trincea, un campo di battaglia europeo. Vi pare facile mettere d’accordo 27 Paesi quotidianamente? A me sembra un miracolo vedere Francia e Germania non farsi la guerra».

La via è il riarmo?
«Su questo c’è molta confusione: sento dire che i programmi di difesa comune toglierebbero risorse alla sanità e all’istruzione. Ma questo presupporrebbe che investissimo già su scuole, università, ricerca e ospedali e negli ultimi tempi non mi sembra si sia fatto. Capisco che l’idea del riarmo faccia paura, ma la difesa serve come forma di dissuasione e se Trump dovesse ritirare gli Usa dalla Nato, cosa farebbe l’Europa?».

Un esercito comune è possibile?
«Un’Europa abbandonata a se stessa può solo cercare di organizzarsi con un sistema di coordinamento delle forze armate nazionali, che già esistono e insieme possono contare qualcosa, o almeno dare l’idea che un’eventuale aggressione a un Paese Ue avrebbe un prezzo. La strada potrebbe essere la coesione e un messaggio chiaro: il riarmo non serve per aggredire ma per difendere, non solo noi stessi, ma i diritti che abbiamo conquistato con fatica. Un disarmo in nome della pace ci renderà prede vulnerabili di qualche autocrazia, dunque meno liberi. La democrazia un giorno ci mancherà».

Il banco di prova sono i dazi.
«Anche qui dobbiamo innanzitutto chiederci qual è l’obiettivo della Casa bianca. Trump punta a incassare centinaia di miliardi di dollari e a favorire le produzioni interne statunitensi, attraendo investimenti. Ma perché? Per ridare ossigeno alla bilancia dei pagamenti americana? Perché l’industria made in Usa è in crisi? In questo senso, la guerra commerciale mi pare un sintomo di debolezza che può trasformarsi in un’occasione per tutti gli altri».

Come?
«Il mercato statunitense è enorme ma il resto del mondo non è da meno: se Ue, Canada, Messico, America Latina, Africa, India, Cina, Giappone e Corea del Sud dovessero rispondere con dazi reciproci contro gli Usa e aprire un vasto mercato alternativo, Trump rischierebbe di fallire. Con una guerra commerciale ci perderemmo tutti, anche gli Usa».

Noi cosa rischieremmo?
«Una frenata del commercio internazionale avrebbe effetti catastrofici per l’economia globale».

E gli Usa?
«In primis la perdita di fiducia e credibilità nell’economia americana e nel dollaro. Sarebbero dolori innanzitutto per quella classe operaia che ha votato Trump».

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