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Home » Esteri

Perché il Nobel per la Pace Abiy Ahmed è così determinato a combattere la guerra in Tigray

Immagine di copertina
Abiy Ahmed, premier etiope e Premio Nobel per la Pace 2019. Credit: ANSA

Il premio Nobel per la Pace Abiy Ahmed sembra sempre più determinato a portare fino in fondo il conflitto in Tigray. L’uomo che sta cercando di costruire una nuova Etiopia, in cui ci sia spazio per tutte le oltre 80 etnie che caratterizzano la complessa demografia del Paese, non sembra lasciare spazio a chi si pone all’esterno della sua filosofia del “Medemer”.

Le truppe etiopi, che lo scorso 4 novembre hanno iniziato un’offensiva contro le forze regionali del Tigray dopo che queste avevano preso il controllo di una base dell’esercito, hanno annunciato domenica 23 novembre di aver accerchiato Macallé, il capoluogo della regione secessionista, dando al Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF) 72 ore per arrendersi.

Dall’inizio dell’offensiva in tanti, dalle organizzazioni internazionali e umanitarie ai governi della regione, si sono uniti in coro a chiedere una soluzione diplomatica al conflitto, trovando la ferma opposizione di Abiy Ahmed, che ha enfatizzato la necessità di ripristinare lo stato di diritto e sottolineato che una soluzione negoziale avrebbe favorito l’impunità di cui accusa il TPLF.

La determinazione con cui il premier etiope sta portando avanti l’azione militare contro i ribelli tigrini va oltre quella che qualsiasi leader che va alla guerra ostenterebbe pubblicamente, dal momento che cela alcuni aspetti fondamentali per comprendere di preciso la portata e le potenziali conseguenze del conflitto del Tigray. Per farla breve, Abiy Ahmed non può permettersi né di negoziare con i tigrini, né tantomeno di iniziare uno scontro che si trascini a lungo nel tempo.

L’Etiopia, come abbiamo detto, è un Paese composto da oltre 80 diversi gruppi etnici, la cui unità è garantita dal fatto che questi vivono in uno stato storicamente unito da prima del periodo coloniale e dall’esistenza di uno stato federale e di un governo costruiti proprio con l’obiettivo di tenere unito questo mosaico etnico.

Il mosaico, tuttavia, in tempi recenti è scricchiolato più di una volta, con le proteste degli Oromo del 2016 e con gli scontri etnici del 2018: fatti che hanno condotto alla scelta di Abiy Ahmed come premier, puntando su una figura innovativa che ha provato a rinnovare il Paese lasciando alle spalle le vecchie divisioni etniche.

Il piano di Abiy Ahmed, peraltro, come tutti i piani ambiziosi, ha trovato resistenze e difficoltà: il premier ha liberato prigionieri politici e lavorato per il coinvolgimento di tutte le etnie, ma non sono mancate le proteste da parte della minoranza oromo (di cui Abiy fa parte), sfociate in scontri mortali dopo l’uccisione del cantante Hachalu Hundessa, e le storiche divisioni con i tigrini si sono gradualmente radicalizzate, fino alle elezioni unilaterali svolte nella regione dopo il rinvio del voto nazionale per l’emergenza Coronavirus, che ha dato un impulso a far scaturire il conflitto armato in corso.

L’Etiopia ha quindi ottenuto negli ultimi anni importanti risultati politici, ma deve muoversi con estrema cautela in una situazione che può degenerare da un momento all’altro.

Il timore del governo è proprio questo: che sedersi al tavolo con il Tigray, come chiesto dal leader del TPLF Debretsion Gebremichael, possa portare a un precedente, e altri gruppi etnici possano arrivare a spaccature più o meno violente con il governo di Addis Abeba con l’obiettivo di ottenere determinate concessioni. Un rischio che può manifestarsi tuttavia anche senza sedersi al tavolo delle trattative, con un conflitto protratto nel tempo che logori le forze governative e porti altri gruppi etnici a seguire l’esempio dei tigrini.

In questo contesto, se Abiy Ahmed vuole evitare che in Etiopia sorgano uno dopo l’altro altri Tigray, ha bisogno di concludere il conflitto in tempi brevi e fare in modo che il TPLF abbia meno potere negoziale possibile, obiettivi che sembra voler raggiungere vincendo rapidamente contro i ribelli. Così si spiega perché, un anno dopo aver ricevuto il Nobel per la Pace, il premier etiope è così determinato a voler vincere questa guerra.

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