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Joe Bastianich a TPI: “Per il Covid ho dovuto licenziare 1.500 persone. In futuro solo i ricchi potranno andare al ristorante”

Immagine di copertina
Joe Bastianich. Credits: AuroreMarechal/ABACAPRESS.COM

Il ristoratore e imprenditore italo americano star dei cooking show nostrani racconta a TPI gli effetti che la pandemia sta avendo sui suoi affari e immagina il futuro della ristorazione dopo il Covid. "Cambierà tutto, aumenteranno le disuguaglianze. Ma chi vorrà potrà reinventarsi. In Usa e in Asia stava già succedendo"

Joe Bastianich risponde al telefono dal suo appartamento di Manhattan, dove vive con la famiglia in quarantena da oltre due settimane, da quando il governatore Andrew Cuomo ha imposto il lockdown anche a New York, diventato in poco tempo epicentro mondiale della pandemia: oltre 14mila persone sono morte di Coronavirus in un mese nello stato che galleggia sulle rive del fiume Hudson, quasi la metà delle 34mila vittime che si contano in tutto il Paese. Il ristoratore italo americano famoso in Italia per le sue apparizioni nei cooking show più seguiti, è prima di tutto un imprenditore: il suo business conta oltre 25 ristoranti stellati in tutta l’America, dal Connecticut alla California, di cui almeno dieci – non ricorda il numero esatto – solo a New York. Ora sono tutti chiusi. E il lockdown lo ha costretto a mandare a casa 1.500 persone, racconta a TPI. Per questo la quarantena non risulta un’esperienza troppo rilassante per il rinomato business man nato nel Queens. “Devo pensare a svuotare i miei ristoranti, se il cibo resta lì potrebbe diventare un bio hazard“, dice scherzando con la sua inflessione americana. Per Bastianich la pandemia è e sarà un disastro per l’economia e per la società “di fronte al quale le conseguenze dell’11 settembre sono come chiacchiere al bar”.

S&D
Sarai costretto a chiudere dopo la fine della quarantena?

Ancora non sappiamo, intanto sono stato già costretto a licenziare 1.500 dipendenti nei miei ristoranti in Usa. Qui ora è tutto in quarantena, un disastro totale. Siamo di circa cinque giorni in ritardo rispetto all’Italia, e come in Italia c’è molta confusione su quello che succederà dopo. Adesso iniziano a pensare alle prime regole di riapertura, ma per i ristoranti non sanno quante persone ci potranno stare, non si possono prendere decisioni, questo è il vero problema.

La cosiddetta fase due sarà una disgrazia o un’opportunità per il mondo della ristorazione?

Entrambi. Una disgrazia per la ristorazione classica, ma un’opportunità per il consumo in generale, si potrà pensare a un tipo di ristorazione completamente nuovo, che stava già crescendo e adesso crescerà molto più in fretta. Si tratta del consumo di cibo di qualità, vino di qualità in contesti diversi dal ristorante con il cameriere e la tovaglia: qui in America si chiama Quick Service Restaurant, e romperà tutti i parametri della ristorazione che conoscevamo prima, tutto quello che pensavamo fosse un ristorante andrà via, il cliente avrà un rapporto più diretto con chi fa il cibo. Sarà un self service ma sempre di altissima qualità, cambieranno tutte le regole e per chi sarà pronto ad affrontare il cambiamento sicuramente ci sono tantissime opportunità.

C’è il rischio che questo tipo di fruizione accentui le differenze socio-economiche? Solo pochi potranno goderselo?

In Italia sì, perché c’è più classismo, e sarà un processo un po’ più lento, ma qui in America questo concetto, specialmente in California, era già avanti. Si va sempre meno al ristorante classico, e sempre più nelle food hall. La generazione dei millennial e le x generations vogliono quella roba lì, e per loro il mondo stava già cambiando. Adesso ruoterà tutto intorno alla sanità, alla poca densità, all’interazione tra chi produce e chi consuma.

E gli affezionati alla tradizione che faranno?

Come in tutto il mondo si accentueranno le disuguaglianze, gli estremi. In Italia rimarrà solo il super lusso, e chi può permettersi un ristorante con pochi tavoli, poca gente e un conto molto alto potrà continuare a mangiare nella maniera tradizionale. Poi ci sarà un altro consumo più popolare. Come per tutte le altre cose ci saranno i ricchi e i poveri e la classe media andrà via.

In Italia hai un piccolo ristorante in Friuli e due aziende agricole. Qual è il sentiment tra i colleghi italiani? 

Sono molto in contatto con loro. Hanno paura di perdere clienti, finché non c’è un vaccino sarà un disastro totale. Dicono che ci vorranno tra i sei mesi e i due anni. E abbiamo visto già in Asia cosa succede: quantità di sedie dimezzate, inizialmente a uscire sono solo i giovani. Sarà un mondo molto diverso.

Qual è la situazione dei tuoi ristoranti in Asia? Lì cosa succederà in futuro?

Tutti chiusi. A Singapore e Hong Kong non c’è niente più. Posti come Singapore sono più preparati ad affrontare le conseguenze di una pandemia perché l’hanno già vissuto nella loro cultura, sono culturalmente e socialmente più pronti ad affrontare questa nuova realtà, in qualche maniera esiste già. Ho meno paura per quel mondo perché lì si adeguano. Hanno già avuto la Sars e altre epidemie in passato, anche se non così importanti, quindi conoscono la cultura della maschera o del consumo diverso, specialmente Singapore e Hong Kong sono avanti come tendenza.

Quindi insomma solo per l’Italia il futuro è più nero?

È una cultura più classica, meno disposta a cambiamenti. Anche se pensi solo alle piccole cose, la consegna di cibo a domicilio, il take away, l’uso di Amazon, l’italiano giustamente si comporta in una maniera più classica, gli piace fare la spesa dal fruttivendolo, dal macellaio, e l’uso di siti di acquisto di cibo è molto meno diffuso rispetto ad altri Paesi. Ma in realtà è anche un pregio non è un difetto.

Ma nel consumo a domicilio non c’è il rischio che si perda la qualità delle materie prime?

È proprio questa la sfida che dobbiamo affrontare: dobbiamo trovare nuove maniere di unire l’acquisto e il consumo di cibo senza perdere la qualità, trovando anche metodi digitali, ma aumentando la qualità.

Eppure durante la quarantena ci stiamo rendendo conto di poter vivere con meno.

Questa pandemia sta avendo un impatto socio economico enorme: in confronto gli effetti dell’11 settembre risuonano come due chiacchiere al bar. Anche in Usa stiamo andando nella profondità di tante cose. Quasi il 60 per cento di chi muore è afro americano, e questo porta a galla tutti i problemi più profondi della società americana, come il razzismo: il grande discorso dopo aver affrontato 40mila morti, di cui la maggioranza sono minoranze, sarà quello sulle disuguaglianze. Forse è il principale problema che la pandemia ha portato a galla, ci ha portato a guardare le cose brutte della nostra società. Prima andavamo avanti perché i soldi giravano e nessuno si rendeva conto di quello che accadeva intorno, tranne quelli che lo vivevano. I morti ci porteranno a confrontare cose del nostro mondo prima rimaste al buio, molto più importanti di cibo e ristoranti. Il “positivo” di tutto questo? La società può cambiare, possiamo diventare una società più giusta per tutti. Se sarà così, almeno il costo di 100mila morti avrà avuto un senso.

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