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Milano, il direttore dell’Ats: “I tamponi non ci salveranno, bisogna stare a casa e tagliare attività non essenziali”

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Milano, il direttore dell’Ats: “I tamponi non ci salveranno”

Accelera il contagio a Milano, con 1.054 casi di Covid registrati nelle ultime 24 ore: lunedì 19 ottobre Regione Lombardia ha disposto il coprifuoco dalle 23 alle 5 del mattino a partire da giovedì 22 ottobre dopo che l’Ats ha lanciato l’allarme tracciamenti e invitato le autorità a “prendere misure più incisive” per contenere l’epidemia. Vittorio Demicheli, il direttore dell’Ats che ha provocato un polverone politico invitando i milanesi a “stare a casa”, descrive a TPI la situazione preoccupante, con focolai fuori controllo e risorse insufficienti per tenere traccia di tutti i contagi. Per questo bisogna “ridurre i contatti, stare a casa se si avvertono sintomi e mettersi in isolamento se si viene a conoscenza di un contatto proprio positivo”, dice. “Tutte le persone che sanno di essere a rischio rispettino l’isolamento, perché d’estate non è successo e tutto questo lo stiamo pagando. I tamponi non ci salveranno”, dichiara.

Cosa sta succedendo a Milano?
La settimana scorsa ci sono stati giorni in cui l’indice di replicazione – il famoso Rt – ha raggiunto il 2,3, un valore piuttosto elevato. Il motivo principale di preoccupazione è che il nostro Cts ha elaborato alcuni scenari di progressione che ci fanno intravedere la possibilità che nel giro di tre o quattro settimane l’impegno dei nostri servizi ospedalieri, sia per il ricovero ordinario che per la terapia intensiva, possa diventare significativo. Questo scenario è preoccupante a Milano perché ci troviamo di fronte a un fenomeno che cresce più rapidamente di quello che ci auguravamo, anche perché a Milano come in tutte le grandi metropoli è difficile prevedere cosa potrebbe succedere.

Perché avete lanciato l’allarme tracciamenti e invitato le persone a restare a casa?
Durante la prima ondata Milano è stata solo sfiorata dalla pandemia, le infezioni erano poche rispetto alla bergamasca o al lodigiano. Ora sembra sia l’epicentro del contagio nella Regione, e come tutte le realtà densamente popolate ci preoccupa. Il motivo per cui abbiamo pensato in questi giorni di lanciare un appello – io denunciando l’aspetto più tecnico dei ritardi nell’attrezzatura per condurre l’attività di indagine che serve a trovare contatti e mettere le persone in isolamento – è perché pensiamo ci sia tempo a sufficienza per prendere provvedimenti e evitare che si realizzino scenari preoccupanti.

Quali?
Il rischio è arrivare a un impegno che ci costringa a interrompere attività ordinarie, abbiamo sei mesi di ritardo nelle cure di malattie non Covid perché è da marzo che abbiamo dovuto rinviare interventi chirurgici e procedimenti diagnostici complicati. Il pericolo immediato da scongiurare è arrivare a un punto in cui per curare i malati di Covid siamo costretti a interrompere le cure degli altri e le conseguenze potrebbero essere purtroppo serie perché devono ancora essere recuperati gli altri mesi di ritardo.
I posti in terapia intensiva stanno finendo?
No, abbiamo una dotazione di un po’ meno di un migliaio di letti, le proiezioni fanno scattare l’allarme quando si raggiungono i 600 posti occupati perché a quel punto dovremmo interrompere tutta l’attività programmata e occuparci solo di emergenza. Però la Lombardia è in grado di raddoppiare la propria dotazione, certo con dei costi organizzative e di salute importantissimi. Ma il nostro sistema ospedaliero ha risorse abbondanti.

Come mai sono emerse difficoltà nel sistema di tracciamento? Cosa è andato storto?
Non si tratta di un fallimento del tracciamento. Le epidemie si possono contenere finché sono piccole. Ciò che non ha funzionato a Milano è stata la ripresa delle attività in modo troppo sostenuto, anche le vacanze non hanno funzionato e ci hanno riportati in emergenza. Abbiamo quadruplicato il personale, favorito l’auto-tracciamento con nuove tecnologie, ma anche se tutto questo funzionasse al meglio i numeri sono tali da richiedere altre misure, che in parte sono già arrivate. Non si può stare dietro a 1.400 contagi al giorno, per questo è meglio auto isolarsi

Ma qualcosa deve essere sfuggita di mano a Milano se il virus ha preso questa rincorsa.
Troppa gente si è mossa, anche con la riapertura delle scuole. Un bambino da solo riesce a mandare in quarantena 50 bambini perché di mattina va a scuola, il pomeriggio va a scherma, a danza o in piscina e dobbiamo telefonare a tutti per rintracciare i contatti. Se i casi sono 1.500 al giorno come si sta verificando adesso si stima che un caso di di un medio-giovane, che sono la maggioranza, richieda dalle due alle tre ore di telefonata, ogni giorno si genera una mole di lavoro che richiederebbe 500 o 600 unità di personale. Noi nel giro dell’estate siamo passati da 50 a 200 unità.

Significa che per quanto si sia corsi ai ripari, era impossibile immaginare e prepararsi a uno scenario simile a Milano?
Sì. E non si può pensare – e mi piacerebbe che questa domanda venisse fatta ai miei colleghi di Roma, Napoli e Bari – di fronteggiare una pandemia con il contenimento, serve nei momenti di minima ma quando il contagio riprende fino a un certo livello riusciamo a inseguire i contagi, oltre a un certo limite non c’è nessun sistema sanitario al mondo capace di tracciare gli infetti. Nel segnalare questa situazione abbiamo semplicemente voluto richiamare l’attenzione delle autorità sul fatto che bisognava un po’ in fretta togliere al virus occasioni di propagazione con operazioni di mitigazione.

Quali sono queste operazioni e le misure più incisive a cui fate riferimento?
Il Dpcm era un po’ all’acqua di rose, le ordinanze della nostra Regione sono più impattanti perché c’è questa decisione del coprifuoco. Ci sono ancora a mio giudizio troppi contatti legati alle attività scolastiche.
Bisognerebbe tornare alla Didattica a distanza come deciso in Campania?
Non dico di fermare le attività didattiche, ma ridurre le parti meno essenziali come le attività pomeridiane. Sono importanti, ma in questo momento dobbiamo fare scelte di priorità e bisogna con scaglionamenti di orari e con didattica a distanza ridurre l’impiego dei mezzi di trasporto che in una realtà metropolitana è critico. I dirigenti scolastici possono modulare e articolare in modo diverso le attività senza bisogno di interromperle. Ma bisogna fare presto perché se passa ancora un po’ di tempo con questa velocità c’è il rischio che non si possano più fare interventi mirati e parziali e si dovrà ricorrere  a misure più restrittive.

Ma qual è la differenza con il mese di marzo?
Vedevamo la malattia sfuggirci di mano, qui vediamo gli strumenti di controllo non bastare e richiamiamo all’attenzione proprio per non ritrovarci nella stessa situazione critica.
Consentire agli studenti di licei e superiori di entrare alle 9 basta a non sovraffollare i mezzi?
Queste cose è bene che le regolino coloro che conoscono bene il funzionamento delle proprie organizzazioni, la sanità invita a ridurre le occasioni di contatto sociale tagliando quelle inessenziali.
Come per esempio?
Le attività extra scolastiche: se si vuole andare a scuola al mattino si rinuncia a qualcosa che si deve fare il pomeriggio. Se non si possono potenziare i servizi di trasporto bisogna ridurre il bisogno di utilizzarli.

Anche le attività sportive si possono fermare?
Nella prima stagione e nei primi provvedimenti venivano salvaguardate le attività collegate alle federazioni sportive ufficiali che però sono numerosissime. Non ho dubbi che chi è affiliato alle federazioni rispetti dei protocolli però siamo già in quella fase in cui dobbiamo tagliare qualcosa e bisogna tagliare prima le cose più pericolose. La movida è più pericolosa di un allenamento di atletica ma ogni segmento della vita sociale deve fare sacrifici per non rinunciare a qualcosa di meno essenziale dopo. E questa scelta la deve fare ciascuno per proprio conto. Lo abbiamo detto più volte ed è importante, troppi cittadini in queste settimane non hanno rinunciato a feste, compleanni e piccole occasioni in cui il virus è circolato. Siamo ancora nella fase in cui se ci muoviamo possiamo tagliare solo le cose meno importanti altrimenti non ci saranno più alternative e quello che sta avvenendo negli altri paesi europei ci deve fare da monito.

Il coprifuoco a partire dalle 23 previsto dalla nuova ordinanza è sufficiente?
Ricordo che quando agli inizi di marzo è stata fatta la zona arancione, cominciava alle 18, e se uno guarda la curva dell’epidemia in Lombardia vede che la prima frenata è arrivata con quel provvedimento prima del lockdown generalizzato una settimana dopo. Il coprifuoco funziona, che sia efficace dalle 18 o dalle 20 o 22 lo vedremo. Soprattutto chi lo deve far rispettare capirà quanta gente c’è in giro.
Ma Milano è la città dell’aperitivo, che parte proprio alle 18.
Siamo in questa situazione paradossale che se arriviamo al dramma e ci fermiamo tutti va bene, se dobbiamo prendere decisioni mirate desideriamo tutti che i sacrifici li facciano gli altri. Qualcosa bisogna fare, credo che ogni ora di coprifuoco in più significhi danneggiare pezzi del nostro sistemi economico. Complessivamente bisogna essere efficaci. Questo è un provvedimento che va nella direzione giusta. Non sono un tecnico e non so quali e quanti esercizi si fermano. Mi auguro che da giovedì i gestori delle utenze telefoniche ci diranno di quanto è calata l’affluenza e a quel punto sarà possibile dire se è sufficiente.

Qual è un’altra misura urgente che potrebbe andare nella stessa direzione?
Si può pensare per esempio di fare la chiusura di attività nel fine settimana per non colpire la parte produttiva. Un’altra cosa che dobbiamo vedere è l’effetto che avrà lo smart working. Milano è una città dove c’è un terziario molto sviluppato quindi potenziare il lavoro agile comporta una riduzione della trasmissione. I decisori hanno preso decisioni nette, mi aspetto nelle prossime serate di non vedere affollamenti che abbiamo visto lo scorso weekend, che danno l’idea che la percezione del rischio non corrisponde alla realtà.

Le persone devono mettersi in auto isolamento?
Questo è un atteggiamento di prudenza prescritto da tempo. In una pandemia con così tante persone coinvolte non possiamo pensare che qualcuno da fuori ci dica qual è il comportamento giusto da tenere. Se sono andato a cena o a fare una festa e mi dicono che una persona con cui ho pranzato e cenato senza mascherina è positivo è doveroso mettermi in quarantena, se sono preoccupato chiamo il medico, cerco di ottenere il tampone ma fino ai dieci giorni di quarantena bisogna rispettare la regola. Abbiamo avuto persone tornate da una zona a rischio, si sono fatte il tampone e hanno lavorato in attesa del risultato e poi quando è risultato positivo abbiamo dovuto perdere ore di tracciatura per mettere in quarantena tutte le persone. Questi errori qui non ce li possiamo più permettere.

Potenziare i tamponi per tracciare gli asintomatici serve?
Non bisogna riporre tutta questa fiducia nei tamponi, si ha l’idea che quando uno lo ha fatto è stato liberato da tutti i mali. Serve a fare diagnosi ma una volta su dieci sbaglia, fa una fotografia istantanea dello stato infettivo, mi dice se sono positivo in questo momento ma tra pochi minuti posso aver contratto l’infezione. Il tampone non ci salverà, quello che ci salverà sono le mascherine, le distanze, ridurre i contatti, stare a casa se si avvertono sintomi e mettersi in isolamento se si viene a conoscenza di un proprio contatto positivo. Lo so che ci sono gli asintomatici ma tutto ciò che sappiamo è che sono contagiosi di cui non mi accorgo. Cominciamo a dire che tutte le persone che sanno di essere a rischio rispettino l’isolamento, perché d’estate non è successo e tutto questo lo stiamo pagando.
E quelli non a rischio? L’invito a stare a casa è rivolto anche a loro?
Bisogna rinunciare agli assembramenti, rispettare la regola del sei. Il succo è tenere solo le attività meno pericolose. Se a lavoro abbiamo molteplici contatti evitiamo di vedere i nostri parenti più anziani e fragili. Facciamo feste di compleanno virtuali. Ho visto filmini di matrimoni inaccettabili.

Leggi anche: Coprifuoco in Lombardia: cosa cambia adesso

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