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    Galli a TPI: “La Lombardia ha fallito. Riaprire le aziende? Rischioso, ancora un mese di stop”

    Di Francesca Nava
    Pubblicato il 17 Apr. 2020 alle 18:08 Aggiornato il 18 Apr. 2020 alle 12:14

    “La Lombardia ha fallito, Riaprire le aziende? Rischioso, ancora un mese di stop”: intervista all’infettivologo Massimo Galli

    TPI intervista il professore Massimo Galli, direttore del Dipartimento di Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano.

    Professor Galli, lei ha recentemente parlato di un clamoroso fallimento della medicina territoriale in Lombardia. Che cosa intendeva dire?
    Questa è una domanda a cui è un po’ complicato rispondere, nel senso che non ti fai uno stuolo di amici. La Lombardia rispetto ad altre regioni, come ad esempio il Veneto, ha avuto un pessimo punto di partenza: ci siamo trovati ad avere un’epidemia molto vasta, molto estesa, rispetto alla quale certamente era difficile intervenire nel modo classico degli interventi epidemiologici. In altre parole, quando tu hai migliaia di casi tutti assieme diventa complicato andare a seguire casa per casa dove ha avuto origine il problema e di conseguenza tracciare le persone che sono state già colpite. Il primo problema serio è stato questo. Un secondo problema altrettanto serio è derivato dal fatto che la massa di pazienti arrivata in ospedale è stata tale da polarizzare la quasi totalità dell’attenzione da questo punto di vista. Questo però non giustifica il fatto di non essersi più occupati ad esempio delle case di riposo e mi sembra evidente che delle case di riposo non ci si è occupati a sufficienza, viste le conseguenze.

    A proposito, lei come valuta la delibera dell’8 marzo della Regione Lombardia, che chiedeva alle Ats di individuare le Rsa disposte a prendere pazienti Covid a bassa intensità?
    Al momento era uno degli elementi di disperazione, non avevamo letti in ospedale e si è cercato di prenderli ovunque, però quello che mi lascia sconcertato è che in quello stesso momento iniziavano ad infettarsi e a morire a battaglioni persone proprio nelle Rsa, anche se nelle case di riposo ho motivo di ritenere, sebbene non abbia nessuna prova provata, che l’infezione non sia stata portata in questo modo, ma banalmente dal personale sanitario non diagnosticato e che nel tempo ha portato nelle case di riposo l’infezione.

    Come se la spiega questa differenza di gestione del Covid tra la Lombardia e il Veneto, anche rispetto al filtro sanitario della medicina territoriale, che in Veneto ha alleggerito l’impatto sulle strutture ospedaliere?
    L’epidemia del Veneto non è paragonabile all’entità dell’epidemia in Lombardia. Se prendiamo l’app del Sole 24 Ore su 165mila positivi in Italia, ne abbiamo 62mila dichiarati in Lombardia, contro i 14mila nel Veneto. Peccato che quelli della Lombardia siano verosimilmente quasi dieci volte tanto, mentre quelli del Veneto probabilmente non sono molto di più di quelli che sono stati effettivamente dichiarati. La Lombardia ancora adesso ha 1.074 persone in terapia intensiva e 12mila persone ricoverate con sintomi, il Veneto 219 gravi e 1.402 ricoverate. In un rapporto di 1 a 10.
    Quanto ha pesato per la Lombardia non aver chiuso un focolaio come quello di Alzano Lombardo?
    È difficile dirlo a posteriori, però è certo che occorreva intervenire in modo deciso. Lo stanno dicendo tutti.
    Su Codogno e Vo Euganeo si è intervenuti subito, mentre in un caso fotocopia a pochi chilometri di distanza si è lasciato propagare un focolaio, con una serie di negligenze, su cui anche la magistratura ora vuole vederci chiaro. L’ospedale di Alzano è sotto la competenza della Regione.
    Questo lo sta giustamente dicendo lei, all’ospedale di Alzano infatti credo che voleranno gli stracci, ci saranno magari avvisi di garanzia anche per dei medici, ma che a pagare il prezzo di tutto questo alla fine siano dei colleghi mi sembra una cosa fuori dal mondo.

    Noi abbiamo pubblicato una lettera che il direttore medico dell’ospedale di Alzano ha inviato alla direzione generale di Seriate, alla Asst Bergamo est (che dipende dall’assessorato regionale al welfare), in cui si contestavano le indicazioni assurde ricevute dall’alto e si chiedeva di poter chiudere subito il pronto soccorso con dei casi sospetti Covid.
    Che ci siano delle responsabilità politiche nella gestione di quella vicenda è indubbio. Così come è indubbio che la riapertura che c’è stata prima del dovuto nella zona rossa di Codogno sia stata una follia, io mi sono espresso contro questa cosa più di una volta, dicendo: che senso ha? Abbiamo avuto la possibilità di modificare in maniera completa il problema, facciamolo fino in fondo! In realtà riaprire Codogno per poi chiudere tutta la Lombardia è stato un comportamento di confusione totale, la cui responsabilità è stata palleggiata tra Governo e Regione.
    Perché ovviamente sono due cose diverse la zona rossa di Codogno e la zona arancione della Lombardia.
    Ma certo! Oltretutto era una cosa che poteva facilitare – dopo i sacrifici fatti a Codogno – anche dei fenomeni di ritorno. Se non trovo ulteriori intoppi andrò a fare questo lavoro a Castiglione d’Adda giusto per vedere se ci sono stati degli effetti in negativo della riapertura, voglio verificare se ci sia stato il ritorno di eventuali infezioni da fuori Codogno nella zona di Codogno, sono convinto che vale la pena di valutare le dinamiche dell’epidemia. Quello che è sicuro è che quando tu hai fatto uno sforzo di un certo tipo e sei comunque in una situazione in cui devi continuare su quella linea non ha alcun senso andare a fare una riapertura prima del tempo. E concordo con lei che lo stesso si sarebbe dovuto fare con la chiusura di Alzano, una zona rossa senza riaperture. Adesso che senso abbia stare qui a discuterne bisogna vedere…
    Anche solo per non ripetere gli stessi errori credo che valga la pena discuterne…
    Certo, in questo senso sì.

    A proposito di riaperture, siamo pronti alla Fase 2?
    Io sto insistendo da diversi giorni perché queste tre settimane o quattro – che io penso debbano ancora essere di chiusura – siano utilizzate per una serie di sperimentazioni. Sono fortemente preoccupato che interessi e veti incrociati stiano impedendo la possibilità di sperimentare di fatto l’unica via possibile, che è quella fondata sui cosiddetti test rapidi. I test rapidi hanno una serie di magagne, in mano mia ne ho provati due, che hanno tra il 92 e il 94 percento di sensibilità nelle persone col tampone positivo. Il discorso cambia se si considerano persone che hanno il tampone positivo da meno giorni, perché in questo caso i test risultano essere meno sensibili, nel senso che gli anticorpi non ci sono ancora. I tamponi come noto non li puoi fare a tutti. E non tutti funzionano benissimo. Dopo di che faccio attenzione a esprimermi, perché su questo tema se dici una parola fuori posto vieni massacrato. Quello che voglio dire è che io potrei essermi infettato due giorni fa ed essere negativo, potrei fare il tampone tra tre giorni ed essere positivo, dipende dalla dinamica dell’infezione. La mia paura è che vada a finire così come è iniziata, che non riuscendo a fare diversamente si è chiuso tutto, ora non vorrei che si arrivasse a una situazione in cui si riapre tutto solo con mascherina, guanti e distanziamento.

    Noi abbiamo tre cose da dover fare: sapere di più sulla dinamica dell’infezione e avere un test epidemiologico nazionale, oltre che lo studio più fine, come vorrei fare io in qualità di ricercatore, sulle dinamiche – se me lo lasceranno fare – a Castiglione d’Adda, a Nembro e in altre aree della Lombardia. Poi bisogna dare uno schema alle aziende su quello che devono fare, dando un pre-filtro basato su questi test rapidi, perché sono fattibili. Infine bisogna poter agire su quelli che sono chiusi in casa con la malattia. Perché anche questi dovranno riprendere a lavorare e bisognerà fare accertamenti sul loro nucleo famigliare, capire se sono stati a contatto magari con degli asintomatici, perché non saperlo è un problema per la ripresa.
    Il fatto che quasi 110mila aziende nel nord abbiano riaperto lei come la vede?
    Siamo già in Fase 2. La vedo come una presa di posizione che comporta dei rischi e causa delle preoccupazioni.

    Quanto è probabile un ritorno dell’epidemia in questa fase?
    Io le posso dire che probabilmente tutta questa epidemia è stata causata da una sola immissione verso la fine di gennaio. In generale in Italia la parte di analisi e di gestione territoriale non è stata brillantissima. Serve molta cautela.
    Dobbiamo imparare a convivere con questo virus, magari puntando sull’immunità di gregge?
    Quella dell’immunità di gregge rimane una grossa sciocchezza fino a che non capiremo come si comporterà questo virus, che potrebbe impiegare qualche generazione per diventare simile a un banale raffreddore. Aspettare l’immunità di gregge per qualche generazione per un virus che ha l’impatto che abbiamo visto, in una società globalizzata e in una situazione di sovrappopolazione, non mi sembra l’ideale. Non possiamo confidare nell’immunità di gregge per liberarci del virus, l’impatto sarebbe devastante, dobbiamo confidare nel vaccino, nelle cure, ma soprattutto nella capacità di contenimento, altrimenti non abbiamo alternativa.

    Lei ha fiducia che saremo in grado di affrontare questa Fase 2 e il cambio radicale di paradigma in tutti gli ambiti della nostra vita?
    Ottimismo della volontà e pessimismo della ragione: sappiamo bene che comunque dovremo affrontare delle risorgenze del virus, sperando di essere sufficientemente organizzati per contenerle.

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    L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

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