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Home » Cronaca

Falcone e quelle indagini naufragate su Mattarella e Gladio

Immagine di copertina
credit: ELIGIO PAONI/CONTRASTO

«Il delitto Mattarella è un Moro bis: l’esecuzione fu opera di killer mafiosi e di terroristi neri inviati dalla P2 sostenuti, e forse anche ospitati, dalla base di Trapani». Le parole del magistrato ucciso a Capaci, consegnateci dal suo amico Pino Arlacchi, costringono tutti a riconsiderare le certezze finora consolidate sul movente di chi ha innescato la bomba che lo ammazzò. L'articolo sul nuovo numero del settimanale The Post Internazionale - TPI, in edicola da venerdì 20 maggio

Falcone voleva indagare su Gladio, ma gli ostacoli incontrati via via lo hanno prima isolato e poi allontanato da Palermo. Anche da Roma, però, il magistrato, avrebbe continuato a raccogliere elementi sui gladiatori, sul ruolo di entità e personaggi esterni a Cosa nostra, ma soprattutto sugli omicidi eccellenti: a partire da quello del presidente della Regione, Piersanti Mattarella. Era questo il pensiero di Giovanni Falcone che lo ha inseguito fino al giorno della strage, il 23 maggio 1992, quando i suoi veri amici si contavano ancora sulle dita delle mani, soprattutto all’interno della Procura di Palermo. A parlarne con TPI è Pino Arlacchi, sociologo ed ex vice presidente della Commissione Antimafia in stretti rapporti con il giudice assassinato. «Non potevo tacere di un aspetto del lavoro di Falcone a Roma che egli teneva segreto a tutti: le sue indagini su Gladio, la P2 e gli omicidi La Torre e Mattarella», ricorda Arlacchi, che di recente ha dato alle stampe Giovanni e io. In prima linea con Falcone contro Andreotti, Cosa Nostra e la mafia di Stato (Chiarelettere, 2022). Una “bomba” accolta punto o poco sinora dai media forse perché troppo scomodi i suoi contenuti. Il quadro che ne emerge si intreccia con uno dei periodi più tristi per il magistrato, delegittimato dalle lettere del Corvo di Palermo, sfiancato dai commenti velenosi all’indomani dell’attentato all’Addaura e ostacolato nell’apertura di un fascicolo sul filone Gladio in Sicilia. Una pista che dai delitti eccellenti conduce all’incontro perverso tra uomini dello Stato, intelligence straniera e mafiosi, e condotta sotto traccia da Falcone.

I misteri dell’estate ’89

Siamo nell’estate 1989, tre anni prima dell’attentatuni di Capaci. Nel giro di poche settimane, Palermo viene sconvolta da tre episodi apparentemente slegati tra loro con in comune però un unico obiettivo: isolare Falcone. Il 21 giugno una borsa sportiva viene ritrovata tra le scogliere poste di fronte la villetta estiva dove si trovava il magistrato, nel borgo marinaro dell’Addaura, poco fuori Palermo. All’interno, 58 candelotti di esplosivo del tipo Brixia. L’allarme parte quando Falcone è ancora in casa con due magistrati stranieri ospiti per una breve vacanza. Il giudice non farà in tempo a vederli, perché un artificiere dei carabinieri li farà brillare. Nei giorni seguenti, il magistrato commenterà l’episodio, dicendo: «Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia».

L’attentato dell’Addaura resta uno degli interrogativi irrisolti della stagione che ha preceduto le stragi, perché segna il momento in cui inizia la sua rapida delegittimazione. I suoi detrattori infatti inizieranno a far circolare la voce che quell’esplosivo «non poteva funzionare», lasciando al magistrato simbolo della lotta alla mafia il rammarico che «per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo Paese».

Alcune settimane prima, Falcone finisce al centro di una serie di lettere anonime, indirizzate alle principali cariche dello Stato e provenienti da una mano rimasta ignota, ma conosciuta ormai come il Corvo di Palermo. Le missive, spedite il 5 giugno, si riferiscono per lo più al rientro in Italia di Totuccio Contorno. Il pentito doveva trovarsi negli Stati Uniti, invece a fine maggio era stato acciuffato dai carabinieri nel palermitano. Secondo l’anonimo, il suo rientro in Italia era stato “gestito” da Falcone: nel giro di poco tempo, tutto era finito sulla stampa. Fino ad un lancio Ansa, del 20 luglio, in cui si riferisce che l’autore delle lettere era stato riconosciuto dai servizi segreti. Ancora più preciso il settimanale Epoca, che riferendo notizie apprese dall’Alto commissariato della lotta alla mafia, ne faceva il nome: Alberto Di Pisa, sostituto procuratore di Palermo, ostile nei confronti di Falcone. Una risposta fin troppo scontata, rivelatasi del tutto infondata. Anche se soltanto dopo la strage di Capaci, Di Pisa verrà assolto con formula piena da ogni accusa. L’autore di quelle lettere non è mai stato identificato, ma l’impatto sulla credibilità di Falcone era stato deflagrante.

Un altro dei misteri dell’estate 1989 è la morte del poliziotto Nino Agostino, ucciso a 31 anni la mattina del 5 agosto con la moglie Ida Castelluccio. Uno dei funzionari dell’epoca, riferì un commento di Falcone ai funerali della coppia: «Io a questo ragazzo gli devo la vita». Agostino era un collaboratore esterno del Sisde e diversi elementi indicano che la sua morte è legata all’attentato dell’Addaura. «Mi fece capire che lo avevano usato e si preoccupavano che parlasse», ha detto il pentito Franco Di Carlo, boss di Altofonte, riferendo uno dei colloqui avuti in carcere, a Londra, con degli agenti segreti: un inglese, un italiano e un terzo che poi si scoprì essere Arnaldo La Barbera, discusso capo della Mobile di Palermo e sospettato di aver “pilotato” il depistaggio per l’attentato del giudice Paolo Borsellino. Per l’omicidio Agostino, è stato condannato il boss Nino Madonia ed è ancora in corso un altro filone del processo. Il suo profilo è legato al famigerato commissariato San Lorenzo, luogo di sintesi della Palermo anni Ottanta, bazzicata da sbirri, spie, mafiosi e uomini di confine. Come Alberto Volo, professore palermitano da poco deceduto, con un passato da allievo ufficiale paracadutista della Folgore, una militanza a destra e tanti amici in Cosa nostra. Un confidente talmente interessante, che Falcone chiese di monitorarlo per la sua sicurezza e tra i poliziotti del commissariato San Lorenzo, che lo avevano scortato, c’era anche Nino Agostino.

La pista “nera”

Volo era considerato una fonte dalla credibilità sempre in bilico, che già nel 1982 veniva descritto come «capace di accomunare (nei suoi racconti, ndr) idee politiche e tarocchi, contatti con servizi segreti e vicende amorose». Una inaffidabilità che però non è sempre univoca nelle stesse carte che ne contengono le valutazioni. Le sue dichiarazioni avevano introdotto la “pista nera” nei delitti eccellenti. Il 19 ottobre 1989, dopo un’estate di fuoco, Falcone firmò il mandato di cattura nei confronti dei presunti killer del presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella: gli estremisti dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari) Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini. L’inchiesta era qualcosa di più di uno spunto. Lo conferma l’audizione di Falcone in commissione Antimafia del 22 giugno 1990, desecretata di recente. «Nel corso di faticose istruttorie abbiamo trovato tutta una serie di riscontri che per brevità ometto», si legge in quel verbale, «e che ci hanno portato a dover valutare il fatto che queste risultanze probatorie fossero conciliabili con una matrice e quindi con dei mandanti sicuramente all’interno della mafia, oltreché ad altri mandanti evidentemente esterni». Come accertato, sono una decina i verbali rilasciati da Volo a Falcone tra l’ottobre 1988 e il 18 maggio 1989. A margine dell’omicidio Mattarella, il professore “nero” parla della “Universal Legion”, una sorta di organizzazione paramilitare di ispirazione filo-atlantica. Una struttura molto simile a quella di Gladio, che soltanto nell’ottobre 1990 verrà “svelata” da Andreotti in Parlamento. Tanto da stimolare Falcone, a distanza di due mesi dalla rivelazione, a visionare degli elenchi parziali con i nominativi dei gladiatori. Un’inchiesta abortita a causa dei contrasti con il capo della Procura di Palermo, Pietro Giammanco. «Avevamo ben chiaro che Gladio, Sismi e grandi delitti di mafia, facevano parte della stessa connection», racconta a TPI Arlacchi, che nel suo libro riferisce le confidenze del giudice, durante una cena a fine 1991. «Quel delitto è stato un caso Moro bis», disse Falcone riferendosi all’omicidio Mattarella.

«L’esecuzione fu opera di killer mafiosi e di terroristi neri inviati dalla P2 e sostenuti, forse anche ospitati, dalla base Gladio di Trapani. Sto ancora cercando riferimenti, e ho una buona fonte negli ambienti di destra» concluse il giudice. Un riferimento ad Alberto Volo? «Sì, certo», risponde il professore Arlacchi. Esistono anche delle audiocassette con le testimonianze di Volo da cui si potrebbero raccogliere ulteriori dettagli mai verbalizzati, come era solito fare Falcone per non bruciare importanti informazioni non subito utilizzabili. I nastri però sono spariti.

Trapani e Falange Armata

Ma intanto il magistrato, dal marzo 1991, era già a Roma, “promosso” direttore generale degli Affari penali, al Ministero della Giustizia diretto da Claudio Martelli. «In poco tempo iniziò una vera propaganda contro Falcone. C’erano le lettere e poi il discorso dell’Addaura», ha aggiunto il pentito Di Carlo: «tutto andò come doveva essere. Tutto era stato programmato per non essere ucciso. Di Falcone se ne volevano liberare così». Di certo, le decisioni di Falcone venivano monitorate. «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni? O soltanto per fornire un alibi?», scriveva lo stesso magistrato, negli appunti consegnati alla giornalista Liana Milella, perché «non si sa mai». Annotazioni, che «per il 70 per cento riguardano Gladio», ricorda l’ex pg di Palermo, Roberto Scarpinato. «Falcone aveva anche iniziato a indagare sull’affiliazione a Gladio di alcuni vertici mafiosi», ricorda Arlacchi parlando del suo libro con TPI.

L’unica indagine sui gladiatori siciliani, era quella aperta dalla Procura di Trapani. Nella primavera del 1991, infatti, i pm trapanesi che indagavano sull’omicidio del giornalista-sociologo Mauro Rostagno, scovarono una delle basi Gladio più curiose: il centro Scorpione. Una struttura riservata, che per tre anni, dal ’87 al ’90, era stata utilizzata dal Sismi e diretta dal colonnello Vincenzo Li Causi, ucciso nel 1993 durante un agguato in Somalia. «Falcone sapeva della presenza di una base Gladio a Trapani, glielo aveva raccontato Mauro Rostagno, era mio compagno a Trento, e lì a Trapani aveva scoperto gli intrecci con le cosche locali per traffici di armi, si erano incontrati più volte e avevano parlato proprio di questo», rivela il professore Pino Arlacchi nel suo libro. Rostagno sarà ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988. Quasi per ironia del caso, l’unico atto prodotto dal centro Scorpione durante i suoi anni di attività è stato un rapporto su un presunto traffico di droga all’interno della Saman, la comunità di recupero dei tossicodipendenti fondata da Rostagno. Ma soltanto di recente il Sismi ha riconosciuto la paternità di un documento, in cui si ammettono “contatti anche fisici” tra i dirigenti dello Scorpione e la mafia di Trapani. Un file a nome “Gladio” fu ritrovato perfino nel databank del giudice, analizzato dopo la morte di Giovanni Falcone: anche recenti indagini hanno appurato la compatibilità tra Gladio e la Settima divisione del Sismi. Gli stessi uomini che hanno rivendicato con cinque telefonate la strage di Capaci, firmandosi Falange Armata: «Non un’organizzazione terroristica, ma un’agenzia di disinformazione gestita dallo stesso servizio segreto». La sigla è stata poi usata per rivendicare alcuni omicidi e le stragi del ’92-’93.

Nel 2020, la procura di Bologna, nel condannare in primo grado il quarto uomo della strage alla stazione, ha ripreso la “pista nera” sull’omicidio Mattarella. Chissà che l’“ossessione” per la verità di Falcone non diventi la sua eredità più grande.

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