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I disastri climatici uccidono l’arte: in Italia 28mila siti culturali in pericolo

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Il riscaldamento globale sta distruggendo il patrimonio artistico del nostro Paese. Nel disinteresse generale della classe politica

Dalla Basilica di San Marco a Venezia, passando per Roma, Napoli, arrivando fino alla Valle dei Templi di Agrigento, si allunga di giorno in giorno la lista dei luoghi d’Italia colpiti da fenomeni meteorologici sempre più intensi e pericolosi. Sia per la popolazione che per i beni artistici e culturali. Così come decine di borghi rischiano di scomparire a causa del dissesto idrogeologico.

Qualche esempio? Volterra, in provincia di Pisa, Civita di Bagnoregio, nel Viterbese, ribattezzata “la città che muore”, la Rupe di San Leo, in provincia di Rimini, e la chiesa di San Pietro a Roccascalegna, a una cinquantina di chilometri da Chieti.

Per anni abbiamo pensato che i cambiamenti climatici fossero qualcosa che non riguardasse in prima persona noi italiani. Greta Thunberg e la Cop26 di Glasgow hanno acceso i riflettori, ma ora che il riscaldamento globale sta lasciando segni tangibili sul patrimonio artistico italiano la questione si fa, se possibile, ancora più seria. L’allagamento della zona archeologica del tempio di Apollo a Siracusa, causato dalle forti piogge che si sono abbattute a fine ottobre sulla Sicilia, è solo l’ultima pagina di una storia che vede sempre più pezzi del nostro patrimonio culturale messi in pericolo da eventi climatici estremi.

E ora uno studio congiunto Ispra-Iscr (rispettivamente Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale e Istituto superiore per la conservazione e il restauro) mette a fuoco la situazione denunciando che sono più di 28mila i siti culturali esposti ad alluvione. Solo nel Comune di Roma i beni immobili esposti sono 2.204, molti dei quali situati nella zona tra Pantheon, piazza Navona e piazza del Popolo.

A Firenze sono 1.145 e comprendono il Battistero, la Biblioteca Nazionale e la Cattedrale di Santa Croce. «Quelli che una volta erano eventi estremi, come l’alluvione di Firenze e Venezia del 1966, che si verificavano ogni cento anni, oggi sono diventati decennali o addirittura annuali: questo è il vero problema, oltre al fatto che abbiamo un territorio molto fragile», fa notare a TPI il geologo e divulgatore Mario Tozzi.

Nell’ottobre 2015 le abbondanti precipitazioni hanno provocato danni al mosaico del pavimento della domus di Giulio Polibio, negli scavi archeologici di Pompei. Un anno più tardi, a Roma, le piogge hanno provocato il distacco di una parte delle Mura Aureliane.

A fine 2018 un nubifragio ha causato il distacco di un capitello della Reggia di Caserta.

Nell’agosto 2019 a Chieri, in provincia di Torino, il forte vento ha causato la caduta della ciminiera di Vajro, sede del Museo del Tessile, e di un pezzo del campanile della chiesa di San Domenico. Andando più indietro, nel gennaio 2013, cinque ettari del Parco archeologico di Sibari, nel Cosentino, sono finiti sott’acqua a causa dell’esondazione del fiume Crati: ci sono voluti tre anni e un finanziamento da 18 milioni di euro per restituire al pubblico una delle più preziose testimonianze della Magna Grecia nel nostro Paese.

Per non parlare della Basilica di San Marco a Venezia, che rimane la grande sorvegliata speciale: qui l’acqua alta nel novembre 2019 ha pesantemente danneggiato pavimenti e mosaici e il salso dell’acqua della laguna ha corroso alcune colonne. A due anni di distanza, nonostante una sequela infinita di dichiarazioni e buoni propositi, nulla è stato fatto per mettere in sicurezza uno dei simboli della laguna.

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