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Quel terrore per il buio che ripiomba su di noi con la crisi energetica

Immagine di copertina
Credit: REUTERS/Susana Vera

Come già avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale l’oscurità rischia di tornare la grande protagonista delle nostre città, delle nostre abitazioni, delle nostre vite. A suon di razionamenti. Così quel periodo diventa una nuova minaccia a cui far fronte

Nella tradizione siciliana esiste una creatura spaventosa e leggendaria, la marabbecca, che vive nell’oscurità dei pozzi e delle cisterne. Si pensa che questo essere, il cui nome è probabilmente di origine araba, sia stato inventato dai genitori per spaventare i bimbi e tenerli lontani dai pericoli che una cavità scoperta può determinare. «Non ti avvicinare al pozzo, lì ci vive la Marrabbecca», era l’ammonimento dato ai più piccoli. Si pensa che l’etimologia della parola “buio” derivi da “burius”, il colore rosso-nerastro del legno bruciato dopo la combustione che ha fornito luce e calore. La nera oscurità, in contrapposizione alla luce, è da secoli associata all’ignoto e al pericolo. Le tracce di questo dualismo si trovano già nella civiltà greca – ad esempio nel mito della caverna di Platone, dove i prigionieri incatenati vivono in un mondo di ombre – e si dipanano fino alla modernità. Nere sono le creature degli inferi, come Cerbero, Caronte e le Erinni. Nera è la “notte degli imbrogli e dei sotterfugi” del tentativo fallito di matrimonio nei Promessi sposi di Manzoni. Neri sono i dissennatori ideati da J.K. Rowling per la saga di Harry Potter, terribili guardie della prigione di Azkaban, che sono in grado di far saltare la luce e risucchiare a felicità e la vita. In un momento in cui, come oggi, si parla apertamente di crisi energetica e – anche se per fortuna al momento solo in via ipotetica – della possibile necessità di tagliare i consumi come in una “nuova Austerity” degli anni Settanta, il buio diventa almeno a livello inconscio una nuova minaccia cui far fronte.

Per di più, questo concetto è tradizionalmente legato alla guerra, insieme alla fame e alla morte: quella stessa guerra che l’Europa sta vivendo alle sue porte orientali ormai dal 24 febbraio, quando la Russia ha invaso l’Ucraina. Ed è dunque con ancora maggiore apprensione che lo sguardo di noi occidentali, così abituato alla lucentezza abbagliante delle nostre città, si rivolge alla possibilità che un domani si possa dover spegnere la luce, rievocando quel che facevano i nostri nonni e bisnonni ai tempi del secondo conflitto mondiale, quando – già dal giugno 1940 – nelle città erano tenuti a rispettare le “norme per l’oscuramento”.

«Nessuna luce doveva trasparire all’esterno dalle finestre delle case», ricorda la giornalista Miriam Mafai nel suo libro Pane nero. Donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale, pubblicato nel 1987 e tornato quest’anno in libreria per Rizzoli. «Ma cominciava a far caldo e le finestre erano lasciate aperte, o almeno con le persiane socchiuse. Si spegneva la luce e si guardava fuori e sembrava un gioco. Le automobili, le poche alle quali era ancora consentito circolare, avevano i fari azzurrati e i parafanghi tinti di bianco. I lampioni delle strade erano stati spenti; si camminava tenendo davanti a sé la pila elettrica, un po’ bassa. Erano scomparsi i tavolini dei caffè dai marciapiedi delle città meridionali, dove gli uomini erano abituati a tirar tardi mangiando cassate e spumoni».

Un altro segno dei tempi “bui” era il coprifuoco, simile a quello che nel 2020 gli italiani hanno dovuto sperimentare a causa della pandemia. «Alle sette di sera potevano circolare per la città solo coloro che avevano un permesso speciale: lavoratori dei trasporti, delle tipografie, degli ospedali», scrive Mafai. «All’approssimarsi del coprifuoco – per molto tempo fu alle sette di sera, ma poi venne anticipato addirittura alle cinque – bisognava calcolare bene le distanze e i tempi. Il portone di casa si chiudeva irreparabilmente a quell’ora: dentro poteva esserci ancora un po’ di tranquillità, chi fosse stato trovato per le strade rischiava l’arresto. Non era ancora buio quando le strade si facevano assolutamente deserte, abbandonate ai militari, fascisti e tedeschi, e ai rari detentori di permessi speciali». C’era infine il lato peggiore dell’oscurità della guerra per i civili: il rischio dei bombardamenti e quindi la corsa ai rifugi antiaerei, stretti e bui. Al momento dell’entrata in guerra, ricorda Mafai, questi erano «pochi e impropri». Si trattava per la maggior parte di «cantine, sottopassaggi, gallerie ferroviarie o tramviarie». La giornalista ricorda che un documento del ministero della Guerra del maggio 1939 segnava l’esistenza, in tutta Italia, di soli 259 ricoveri per circa 72mila persone, e di 415 ricoveri industriali per altre 43mila persone. «Aggiungiamoci pure i cosiddetti “ricoveri casalinghi”, esattamente 3.523 per 190.000 persone, e arriveremo alla cifra totale di non più di 300.000 persone per le quali era prevista, in caso di bombardamento, un’adeguata protezione», sottolinea Mafai. Chi era tra i fortunati e riusciva a entrarci, ricorda la sensazione di costrizione, soffocamento e impotenza. «Non c’era più domani, sapevi già che dovevi di nuovo sentire l’allarme, gli scoppi, la terra che tremava in una continua ripetizione che fiaccava le energie e la volontà», è una delle testimonianze raccolte dalla giornalista. Parole che ricordano quelle che abbiamo sentito negli ultimi mesi, raccontate sui giornali o nei servizi televisivi sul campo da alcune zone dell’Ucraina, prese di mira dai bombardamenti.

Lo splendore della notte

L’idea del buio, tuttavia, non può restringersi solo a indicare terrore, sofferenza e morte, come ha ben argomentato la docente nell’Università della Svizzera italiana Francesca Rigotti, nel libro intitolato Buio e pubblicato nel 2020 dalla casa editrice Il Mulino (collana Voci). In città sempre più illuminate 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, in cui l’eliminazione di ogni angolo buio è vista come elemento di modernità e di sicurezza, l’autrice punta a riconoscere dignità e autonomia al buio, visto non tanto e non solo come assenza di luce, ma come suo elemento complementare, in modo da salvarlo dalla sua «progressiva eliminazione dal pianeta». Esiste infatti un buio bello e affascinante, quello dell’intimità, dell’introspezione, della meditazione, della calma e del riposo notturno, necessario e rigenerante. «Se la luce alimenta la ragione, il buio abita nelle regioni dell’immaginazione», scrive Rigotti. «Quando la luce eccita il pensiero, il buio calma la mente ansiosa ed è fonte di idee irraggiungibili alla chiara luce del giorno». Sublime è, ad esempio, la notte di Immanuel Kant, che ammira il «cielo stellato» sopra di sé. Ma buia è anche la nube salvifica che nell’Esodo Dio manda agli ebrei per consentire loro di fuggire dagli egizi. Il buio può dunque essere luminoso, come le notti di Natale e di Pasqua, e persino rivelatorio: la nottola, uccello caro alla dea della sapienza Minerva, infatti, comincia il suo volo quando si fa sera, rappresentando simbolicamente che la comprensione inizia in quella fase del giorno. Al contrario, se consideriamo che la troppa luce abbaglia e offusca, minando le capacità di vedere.

Ecco che il buio, inteso come elemento complementare alla luce, assume un nuovo fascino, meno angosciante della visione più tradizionale e radicata. Se nei prossimi mesi saremo quindi costretti a spegnere le lampadine, i lampioni, le insegne, e le altre fonti di luce a certi orari, per necessità di risparmio energetico, che sia dunque l’oscurità naturale dei nostri cieli a prevalere, e non quella legata all’ignoranza e alla guerra. Chissà che i nostri occhi non possano scoprire, proprio grazie ad essa delle meraviglie, dentro e fuori di noi, cui non siamo più abituati.

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