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Home » Politica

Il voto su Rousseau? Ecco perché è un referendum Grillo-Conte contro Di Maio

Immagine di copertina
Foto: Luigi Di Maio e Giuseppe Conte in Parlamento

Il voto su Rousseau e la guerra interna al M5S

Sono gli ultimi giorni di febbraio 2018. La campagna elettorale per le elezioni Politiche è ormai entrata nella sua fase caldissima e il Movimento 5 Stelle è dato da tutti i sondaggi, ufficiali e pirata, al suo massimo storico. Luigi Di Maio in quel momento si trova al punto più alto della sua ascesa politica. Cinque mesi prima, nel settembre 2017, è stato eletto capo politico del Movimento con percentuali bulgare (l’82 per cento) sulla piattaforma Rousseau, ha in mano contemporaneamente la guida politica del partito, controlla i gruppi parlamentari, ha attorno a sé il cerchio magico e gode della fiducia pressoché totale di Davide Casaleggio. Apparentemente non ha nemici, né rivali. Ma, al di sotto della superficie, ribollono in realtà fronde e correnti interne da far impallidire la vecchia Dc.

Già, perché, mentre Di Maio gira l’Italia con un pulmino, circondato da fedelissimi e comunicatori, tra Roma e Milano si infittiscono telefonate e incontri carbonari nell’ala più dura, movimentista e “ortodossa”: da Beppe Grillo ad Alessandro Di Battista pre-Nicaragua, sino ad Enrico Maria Nadasi, commercialista personale di Grillo e co-fondatore del Movimento 5 Stelle. Oltre ovviamente a Roberto Fico, da sempre esponente di riferimento della cosiddetta “sinistra” del Movimento 5 Stelle, ammesso che esista una sinistra all’interno del partito post-ideologico per eccellenza.

I rapporti tra le due ali del partito non sono mai stati così freddi e tesi come in quei giorni di fine febbraio. La linea degli ortodossi è una sorta di strategia del pop corn ante-litteram in salsa grillina: nessuno sgambetto, un tiepido sostegno pubblico alla causa e tutti insieme, seduti a braccia conserte, sulla riva del fiume, in attesa di veder passare il cadavere.

> Cosa succede se gli iscritti M5s bocciano il governo col Pd sulla piattaforma Rousseau

Solo che le elezioni del 4 marzo vanno al di là anche delle più rosee aspettative per Di Maio e i suoi. E costringono Grillo e Di Battista a mettere in naftalina i propositi di riprendersi in mano il Movimento. Ma è a questo punto, più o meno, che si prepara ad entrare in scena il terzo protagonista di questa storia. Il suo nome è Giuseppe Conte. Un oscuro professore di Diritto privato devoto a Padre Pio che, fino a pochi mesi prima aveva gravitato senza troppo fortuna vicino agli ambienti del Partito Democratico, alla ricerca di un incarico che non era mai arrivato.

Eppure, la notte del trionfo 5 Stelle, le telecamere lo immortalano festante, al fianco di Di Maio, nel quartier generale grillino. Ed è a lui che il capo M5S penserà, un paio di mesi dopo, per il ruolo di Presidente del Consiglio del nascente governo gialloverde. Conte ha il physique du role per la figura di cui sono a ricerca Di Maio e Casaleggio: sconosciuto, controllabile, del tutto a digiuno di comunicazione e con un curriculum rispettabile.

Ma c’è un elemento che Di Maio ha sottovalutato. Anzi, due: Conte è ambizioso. E impara in fretta il gioco della politica. Per sei mesi subisce e incassa, viene sbeffeggiato da maggioranza e opposizione, accetta passivamente il ruolo di “burattino” dei due vicepremier, non reagisce neppure quando a Strasburgo il liberale belga Guy Verhofstadt glielo dice apertamente in un memorabile speech in perfetto italiano. Ma, in silenzio, cresce, si applica, ci prende gusto.

Ad ogni viaggio all’estero e ad ogni tavolo diplomatico, si costruisce via via quella credibilità internazionale che Salvini e Di Maio nel frattempo vedono precipitare, troppo presi da una caccia spasmodica al consenso che finirà col logorare entrambi. Fino all’epilogo che tutti abbiamo sotto gli occhi, lo scorso 20 agosto in Senato, quando l’avvocato del popolo per mezz’ora si trasforma in una via di mezzo tra Calamandrei e Churchill e impartisce a Salvini una lezione di diritto, Costituzione e democrazia che da tempo non si sentiva provenire dai banchi di governo. Tardivo quanto vuoi. Ma è il discorso che, di fatto, consegna all’Italia un nuovo leader, credibile e, soprattutto, spendibile per un dopo-Salvini.

Ed eccoci ai giorni nostri. Da quei giorni di febbraio 2018 sembra passato un secolo per Di Maio, che in un anno e mezzo è riuscito letteralmente a dimezzare i consensi dal 33 per cento delle Politiche fino al 17 per cento delle Europee (salvo una successiva timida risalita). Ma, soprattutto, ha visto crescere intorno a sé la rivalità interna. Ora le correnti non sono più una sola ma due: da una parte Grillo, riemerso di colpo da un letargo di due anni e rafforzato dal ruolo di grande tessitore della trattativa col Pd; dall’altra Conte e i “neo-contiani”, che vedono nell’avvocato l’ultima chance di restituire al Movimento una credibilità istituzionale e politica spazzata via dall’uragano Salvini.

In mezzo, la mina vagante, la variabile impazzita: quell’Alessandro Di Battista che da anni attende un modo per strappare all’ex amico la leadership del Movimento, ma al tempo stesso non vede di buon occhio un governo giallorosso. E, proprio per questo, potrebbe rivelarsi un alleato insperato per Di Maio nei giorni che decideranno il futuro di questa legislatura, le sorti stesse del Movimento 5 Stelle e il destino di tutti i suoi protagonisti.

Decisivo, ancora una volta, sarà il voto su Rousseau. Quello di domani si candida a diventare a tutti gli effetti un referendum su Luigi Di Maio e una sorta di primarie online che metterà l’ex informatico Pomigliano d’Arco di fronte ai nuovi e ai vecchi competitor: Conte e Grillo. Uniti da un duplice obiettivo comune: ottenere il via libera all’accordo col Partito Democratico e, al tempo stesso, liberarsi – forse definitivamente – di un leader diventato ormai troppo ingombrante.

> Voto sulla piattaforma Rousseau, ci sono novità: il M5S cambia il quesito (rispetto al 2018) e mette il “No” prima del “Sì”

La conferenza stampa con cui venerdì scorso Di Maio ha rimesso in discussione a sorpresa un accordo che sembrava già archiviato è un messaggio chiaro ai suoi fedelissimi e un segnale preciso ai suoi avversari interni: “Senza di me non si fa nulla”. Una sorta di prova di forza che va oltre anche la disputa per la carica di vicepremier. In gioco non c’è il ruolo di Di Maio all’interno di un governo giallorosso e i destinatari del messaggio non sono affatto gli esponenti del Partito Democratico, come qualcuno ha ventilato. Quando il capo grillino detta la linea (“O passano le proposte dei 5 Stelle o si va al voto”) e pone dei paletti che sembrano piloni (“Il Decreto Sicurezza non si tocca”), in realtà non sta parlando al Pd ma ai suoi compagni di partito, e la partita che si sta giocando è quella, tutta interna, per la futura leadership del Movimento.

In un partito normale, ci sarebbe un solo modo per districare un tale ginepraio: parola all’assemblea e vinca il più forte. Ma questo non è un partito normale e Rousseau non è un’assemblea di iscritti, ma il più oscuro e controverso strumento di presunta democrazia diretta mai creato, giudicato a più riprese non trasparente e “manipolabile” dallo stesso Garante per la Privacy (con tanto di multa), le cui chiavi sono – al netto di un complesso sistema di scatole cinesi – saldamente nelle mani della Casaleggio associati e del suo proprietario, Davide Casaleggio. È lui l’arbitro (e giocatore?) di questa partita decisiva.

Il voto su Rousseau e il referendum M5S su Di Maio

Domani gli iscritti a Rousseau non sono semplicemente chiamati ad esprimersi su un accordo di governo, ma dovranno decidere da chi vogliono essere guidati nei prossimi tre anni e mezzo e chi, di fatto, dovrà guidare il Paese. E, a giudicare dal quesito annunciato oggi dal Blog delle Stelle, questa volta la votazione assomiglia a tutto meno che a una formalità:

“Sei d’accordo che il Movimento 5 Stelle faccia partire un Governo, insieme al Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte?”, recita il testo.

Tanto per fare un esempio, l’anno scorso, nell’analogo quesito con cui era stato sottoposto al parere degli iscritti il governo gialloverde, la parola “Lega” non compariva neppure. E chi conosce l’ambiente 5 Stelle sa bene quanto quelle due letterine, PD, evochino il nemico per eccellenza della base grillina.

Insomma, s’illude chi ritiene il governo giallorosso una partita già chiusa. Il bello (o il brutto, a seconda dei punti di vista) deve ancora venire. La resa dei conti, attesa due anni, è finalmente arrivata. E il governo giallorosso non c’entra.

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