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Nuova Via della Seta, sì o no? Ecco le ragioni di chi vuole il rinnovo e tutti i dubbi degli anti-Pechino

Immagine di copertina
Credit: AGF

Politicamente costa troppo e non ha comportato tutti i vantaggi economici sperati. È una questione di sovranità, invece. Inoltre non è utile a nessuno scontrarsi con la Cina. Due posizioni apparentemente inconciliabili ma che si rifanno agli stessi dati. Ecco come

Rinnovare il memorandum per nuova Via della Seta con la Cina non conviene all’Italia perché il costo politico è troppo alto rispetto ai vantaggi economici sperati. Non prorogare l’accordo sulla Belt & Road Initiative (BRI) invece potrebbe scatenare la reazione di Pechino contro il nostro Paese, che dovrebbe badare ai suoi interessi nazionali senza farsi dettare l’agenda dagli Usa, il cui interscambio con il gigante asiatico è ai massimi storici.

S&D

Chi punta sul rinnovo ammonisce sulle possibili ritorsioni cinesi, partendo dai dati, gli stessi che non convincono chi è contrario alla nuova Via della Seta e tra questi ultimi troviamo, ovviamente, in prima fila gli Usa.

«Le aziende occidentali non hanno lo stesso accesso alle infrastrutture strategiche di Pechino, che non rispetta le proprietà intellettuali occidentali», ha spiegato recente a Repubblica l’ambasciatore Usa all’Osce, Mike Carpenter, secondo cui bisogna «guardare in modo strategico al “de-risking” delle relazioni economiche con Pechino, in particolare nella catena di approvvigionamento».

Una posizione che, velatamente, ne sottolinea anche il costo politico, spiegato senza mezzi termini ad Atlantico dall’economista Giulio Sapelli: «Siamo stati l’unico Paese dell’Ue e del G7 ad aver firmato un memorandum così impegnativo con la Cina, una follia che ha compromesso il nostro prestigio internazionale».

Un fardello che non comporterebbe vantaggi economici. Secondo i dati di Rhodium Group e Merics, negli ultimi 20 anni la Cina ha investito quasi 16 miliardi di euro in Italia, quanto in Francia ma meno della metà che in Germania, due Paesi che non hanno aderito alla Belt & Road Initiative (BRI).

Non solo: come mostrano le statistiche di InfoMercatiEsteri, dalla firma dell’accordo sulla nuova Via della Seta l’export nostrano in Cina è cresciuto dai 12,5 miliardi del 2020 ai 16,4 del 2022 ma al contempo le importazioni sono quasi raddoppiate, passando da 32,2 a 57,5 miliardi di euro.

Altri, ha ricordato l’ex ministro Giulio Tremonti al Gazzettino, «hanno aumentato i volumi di vendite senza l’accordo, noi abbiamo avuto l’accordo senza volumi di vendite». Perciò, come spiegato a Dire dall’ex ambasciatore Antonio Armellini, dovremmo guardare altrove: «L’Italia investa in India, altro che Via della Seta».

Lasciare l’intesa con Pechino sulla nuova Via della Seta però potrebbe non essere affatto indolore e i dati lo confermano. «Dopo la firma del memorandum, il livello strategico delle relazioni tra Cina e Italia è ulteriormente migliorato», ha dichiarato l’ambasciatore della Repubblica Popolare a Roma, Jia Guide, in un’intervista al cinese Global Times.  «I fatti parlano da soli».

Dopo aver citato una serie di affari miliardari nell’elettronica e nella cantieristica navale e gli importanti accordi nel settore agro-alimentare, nella stessa occasione il diplomatico ha tenuto a precisare che Pechino «è il principale partner commerciale dell’Italia in Asia e il commercio bilaterale ha raggiunto un nuovo massimo per tre anni consecutivi».

Ma in favore di chi? È proprio questo il punto, secondo l’ex ambasciatore Alberto Bradanini, intervistato dal Fatto Quotidiano: «Su 77 miliardi di euro di commercio bilaterale con la Cina, l’Italia nel 2022 ha accumulato un deficit di 41 miliardi, che potrebbe anche peggiorare in caso di ritorsioni». Malgrado i progressivi segnali di una riduzione del gap, soltanto nei primi cinque mesi di quest’anno, il saldo risultava già negativo per 10 miliardi di euro.

L’accordo invece, definito dall’ex ambasciatore nient’altro che «un elenco di buone intenzioni», andrebbe «non solo prorogato, ma reso più vincolante per la parte cinese (…) badando agli interessi nazionali» come già fanno Francia e Germania. Per non parlare degli Usa, che nel 2022 hanno registrato un interscambio record di 690 miliardi di dollari con Pechino, un colosso che per l’Italia non ha senso sfidare.

Opinione condivisa soprattutto dal mondo delle nostro imprese. «Oggi abbiamo due strade: o uscirne, cioè uno scontro aperto con la Cina, o lasciare andare in automatico il rinnovo», ha spiegato il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, a Sky TG24. «Dal punto di vista economico non cambierebbe nulla», aveva già detto qualche giorno prima a Washington, durante i colloqui alla Camera di commercio americana. «Alla luce di quanto sta accadendo può essere utile mantenere aperto un canale di dialogo».

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