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Home » Esteri

La Cina è fra noi e il Golden Power non ci salverà (di G. Gramaglia)

Immagine di copertina
Credit: AGF

Il Governo Meloni è intervenuto per evitare che un gruppo cinese controllasse Pirelli. Ma non ha ancora deciso se abbandonare la Nuova Via della Seta, come vorrebbero gli Usa. E mentre l’Ue viaggia in ordine sparso, Pechino è considerato al contempo sia un partner strategico che una minaccia

L’Italia, e l’Europa, alla prova di Cina. L’esame lo fanno gli Stati Uniti: si aspettano che i Paesi dell’Ue li assecondino nelle loro scelte con Pechino, confronto economico e commerciale e diffidenza sulla sicurezza. Le conclusioni sulla Cina del Consiglio europeo della scorsa settimana, cui la stampa italiana ha prestato scarsa attenzione, distratta dalle chiacchiere solitarie della politica nostrana su Mes ed emigrazione, indicano un «approccio politico poliedrico» nei confronti di Pechino, di cui l’Ue è «contemporaneamente partner, concorrente e rivale sistemico»: non vuol dire molto in concreto, ma è detto bene; e, soprattutto, nasconde distanze ancora sostanziali fra i 27.

Del resto, la riflessione europea non è ancora conclusa: si valutano i pro e i contro di un rapporto con la Cina più o meno conflittuale e anche le contraddizioni fra gli interessi americani ed europei. Finora, le scelte dei singoli Paesi sono state fra di loro divergenti, al di là della banale constatazione che Ue e Cina «continuano a essere importanti partner commerciali ed economici». L’obiettivo dell’Unione è di cercare di garantire «condizioni di parità», in modo che le relazioni commerciali ed economiche siano «equilibrate, reciproche e reciprocamente vantaggiose». Ma l’Ue intende continuare «a ridurre dipendenze e vulnerabilità critiche, anche nelle catene di approvvigionamento, a ridurre i rischi e a diversificare dove necessario e appropriato», senza né «disaccoppiare» né «ripiegarsi su se stessa».

Il caso italiano
L’Italia è uno dei “test cases” europei, perché, entro la fine dell’anno, deve decidere se rinnovare o meno il “memorandum of understanding” con la Cina sulla Nuova Via della Seta, concluso nel 2019 dal governo Conte 1 – M5S e Lega –, ma che è sfociato in poche realizzazioni concrete. Una metà dei 27 ha ceduto alle lusinghe del progetto cinese di espansione economica, ma tra questi l’Italia è l’unico dei Grandi dell’Ue (e l’unico del G7).

Recenti decisioni del Governo italiano indicano una linea di prudenza e di diffidenza nei confronti della Cina, specie per quanto riguarda la sicurezza informatica, in linea con le preoccupazioni Usa. La premier Giorgia Meloni è stata invitata negli Stati Uniti dal presidente Joe Biden: la visita si farà dopo il vertice della Nato a Vilnius l’11 e 12 luglio, probabilmente entro fine mese; e la Cina sarà uno dei temi. Difficile che Meloni, finora atlantista in tutte le scelte di politica internazionale, voglia creare screzi con Biden su questo punto.

A metà giugno, il Governo italiano ha già deciso di usare lo scudo del Golden Power con la Pirelli, dopo che il nuovo patto tra Sinochem (37%) e Camfin (14,1%) aveva rafforzato la posizione cinese nella governance aziendale. Sinochem Corporation è un conglomerato multinazionale statale cinese attivo in molti settori civili e militari. Cam Finanziaria fa capo invece alla Marco Tronchetti Provera SpA.

Il ricorso al Golden Power dà al gruppo italiano strumenti per tutelare gli asset strategici, tra i quali un nulla osta di sicurezza industriale che prevede limiti di accessibilità alle informazioni. Pirelli poi «istituirà una unità organizzativa autonoma per la sicurezza»; e «per alcune decisioni strategiche ci vorranno almeno i 4/5 del Consiglio di Amministrazione».

Le linee guida di Washington
Le scelte sulla Cina europee ed italiane, pur ancora in linea di definizione, paiono fin qui tenere conto delle indicazioni statunitensi, quando non s’inquadrano in esse. Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche e responsabile del programma “Attori globali” dello IAI, osserva che l’amministrazione Biden prende le distanze dai principi di base della globalizzazione, cioè deregulation, outsourcing, libero commercio e investimenti diretti.

Washington, oggi, si preoccupa, piuttosto, «di ridurre le vulnerabilità sociali, economiche e politiche indotte da interdipendenze globali, come il ricatto sull’energia della Russia e l’accesso della Cina ai mercati. Le priorità Usa includono: ristrutturazione delle catene d’approvvigionamento più vicino a casa o a Paesi amici; investimenti nell’industria dei semiconduttori; rigide restrizioni all’export di tecnologie di punta verso la Cina; meccanismi di verifica degli investimenti; e altri strumenti anti-coercizione».

Linee guida in cui ben s’inseriscono le decisioni dell’Italia sulla Pirelli. Ma vi sono settori in cui interessi e posizioni europee ed americane divergono. Ad esempio, osserva Politico, Bruxelles e Washington sono «lontani miglia» sulla minaccia delle auto cinesi: gli Stati Uniti mantengono politiche protezionistiche e alte barriere doganali, l’Unione è aperta.

E c’è competizione tra i Grandi dell’Ue su chi mena la danza con Pechino. Il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto visita al leader cinese Xi Jinping all’inizio di aprile, accompagnato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (il cui ruolo appariva, però, subordinato); e il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ricevuto a Berlino il premier cinese Li Qiang. Quanto a Meloni, ha visto in bilaterale Xi, ma soltanto a margine del vertice del G20 in Indonesia nel novembre 2022.

Nella percezione dei partner, e nel giudizio di Politico, la Germania, la maggiore economia europea, è piuttosto incline a «inchinarsi alla Cina», nonostante lo slogan del momento europeo sui rapporti con Pechino, “de-risking”, diminuire i rischi, sia stato coniato da una tedesca, la presidente Ursula von der Leyen, che, però, viene dall’area d’opposizione all’attuale governo tedesco (è una Cdu e la Cdu è fuori dalla coalizione al potere a Berlino).

La confusione europea
Nel quadro di una nuova strategia globale che i capi di Stato o di governo dei 27 hanno solo iniziato a discutere a fine giugno, la Commissione europea punta a vietare alle aziende di produrre tecnologie sensibili in Cina e nelle autocrazie, o di delocalizzare (outsourcing) catene di approvvigionamenti essenziali. In realtà, il documento di 14 pagine non menziona mai la Cina, ma le fa più volte implicito riferimento.

Scholz pare, invece, incline a chiudere un occhio, in nome degli affari e della crescita dell’economia, sul mancato rispetto dei diritti umani, la sicurezza tecnologica, Taiwan. Politico fa eco delle accuse rivolte a Berlino di tacere sul genocidio degli Uiguri musulmani nello Xinjiang per favorire l’installazione della Volkswagen nella regione. La Germania punta sulla cooperazione con la Cina nel contrasto al riscaldamento globale e nella transizione alle energie rinnovabili.

Tornando all’Italia, le ricercatrici dello IAI Beatrice Gallelli e Francesca Ghiretti osservano che «rischi collegati alla presenza cinese riguardano sia l’economia che la politica». Quelli economici vanno da investimenti predatori a pratiche scorrette, da trasferimenti di tecnologia forzati all’acquisizione da parte cinese di assets strategici. Quelli politici comportano un incremento dell’influenza di Pechino, tramite le leve economiche, a livello sia nazionale che locale. E ci sono pure rischi collegati all’azione cinese nell’accademia, nei media, nell’opinione pubblica.

Insomma, la Cina non è più soltanto vicina, come recitava il titolo di un film di Marco Bellocchio dei tempi della rivoluzione culturale maoista, ma è fra di noi. E starebbe accadendo esattamente l’opposto di quanto l’Occidente aveva previsto: la globalizzazione non aiuta a esportare democrazia e diritti umani, ma offre teste di ponte al modello cinese.

La Grande Muraglia italiana
È davvero così? E la Golden Power ci salverà? La nostra “Grande Muraglia” è un provvedimento del 2019, che allarga il tipo di tecnologie che fanno scattare allarmi per la sicurezza nazionale: vi rientrano, a giudizio del governo, la cui decisione ha raccolto consensi anche nell’opposizione, assets della Pirelli, tecnologie critiche e algoritmi, inclusi quelli proprietari, legati a sviluppo e digitalizzazione di processi e prodotti, con l’applicazione dell’AI e della sensoristica sviluppata e commercializzata dall’azienda. Il ricorso alla Golden Power «serve per proteggere dati sensibili dalla Cina», ha sintetizzato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.

In particolare, il Governo ha voluto tutelare i sensori cyber impiantabili negli pneumatici, che possono raccogliere dati del veicolo su assetti viari, geo-localizzazione e stato delle infrastrutture. Le informazioni così raccolte possono essere trasmesse a sistemi di elaborazione cloud e super calcolatori per la creazione, tramite intelligenza artificiale, di complessi modelli digitali utilizzabili in sistemi d’avanguardia. Per Palazzo Chigi, «la rilevanza di questa tecnologia è individuabile in una pluralità di settori: automazione industriale, machine to machine communication, machine learning, manifattura avanzata, intelligenza artificiale, tecnologie critiche per la sensoristica e attuatori, Big Data e Analitycs». Il che la rende «una tecnologia critica di rilevanza strategica nazionale»: «Un suo uso improprio può comportare notevoli rischi non solo per la riservatezza dei dati degli utenti, ma anche per il possibile trasferimento di informazioni rilevanti per la sicurezza nazionale».

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