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Il problema del M5S non è il Pd. Si chiama Luigi Di Maio

Immagine di copertina
Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Credit: ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Dopo la debacle alle elezioni regionali in Umbria, per il Movimento Cinque Stelle è arrivata l'ora di riflettere sulla leadership del partito

Il problema del M5S non è il Pd. Si chiama Luigi Di Maio

Una clamorosa disfatta, è proprio il caso di dirlo, il risultato del Movimento 5 Stelle in Umbria. Il candidato della coalizione Pd M5S, Vincenzo Bianconi, si è fermato al 37,5 per cento, a ben venti punti percentuali di distanza da Donatella Tesei, candidata presidente della Regione Umbria per il centrodestra. La stramba alleanza tra il Partito democratico e il Movimento fondato da Beppe Grillo non ha affatto portato i risultati sperati, anzi. Il Pd ha perso oltre 13 punti percentuali rispetto alle scorse regionali umbre, mentre il Movimento 5 Stelle guidato da Luigi Di Maio ha dimezzato i voti crollando ben al di sotto della soglia psicologica del 10 per cento, fermandosi al 7,4 per cento.

S&D

Una vera e propria débâcle per il Movimento guidato da Luigi Di Maio, che va ad aggiungersi ai pessimi risultati politici e di governo inanellati nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Gli elettori non hanno compreso l’alleanza con lo storico nemico Pd? È molto probabile che uno dei motivi della disfatta sia questo, ma non è di certo l’unico. Il crollo verticale del Movimento 5 Stelle è iniziato parecchi mesi fa, precisamente nel giugno 2018, con il famigerato contratto di governo siglato per sancire la nascita dell’esecutivo giallo-verde.

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Per diciotto lunghi mesi, il leghista Matteo Salvini ha di fatto dettato l’agenda di governo e fatto il bello e il cattivo tempo senza trovare alcuna resistenza da parte del M5S guidato da Di Maio. Per diciotto lunghi mesi, Di Maio ha di fatto avallato ogni richiesta e pensata di Salvini abdicando a numerosi storici principi fondativi del M5S. “Gli elettori hanno votato su Rousseau ogni decisione”, potrebbero eccepire molti simpatizzanti e militanti. Sì certo, peccato che rispetto ai milioni di votanti che alle politiche del 4 marzo scelsero il Movimento 5 Stelle, gli iscritti a Rousseau non sono che poche decine di migliaia di persone. Un po’ pochi per rappresentare l’intero elettorato del Movimento.

Da azionista di maggioranza di governo e del Paese, nel giro di 18 mesi il Movimento 5 Stelle è diventato un attore quasi residuale nell’agone politico italiano. Dal 32 per cento di consensi raccolti alle politiche del 4 marzo 2018, in un anno e mezzo di governo con Matteo Salvini, Luigi Di Maio è riuscito a snaturare il Movimento 5 Stelle in tutto e per tutto, provocando la conseguente e prevedibile emorragia di consensi. Sebbene il Movimento 5 Stelle non abbia quasi mai brillato nelle competizioni locali e regionali, è anche vero che tutti gli appuntamenti elettorali che si sono susseguiti durante i diciotto mesi di governo hanno evidenziato un crollo inarrestabile e la perdita di consensi su tutti i fronti.

No, non è l’alleanza con il Pd il vero e unico problema del Movimento 5 Stelle. Il vero problema del Movimento 5 Stelle è Luigi Di Maio, un leader senza leadership che in diciotto mesi ha commesso tanti, troppi, errori portando il M5S a divenire un partito personalistico come tanti altri e a dimezzare i propri consensi ovunque, non solo in Umbria. Ancor più sconvolgente del voto umbro è stato il risultato elettorale delle scorse europee: in un anno di governo con Salvini, Di Maio si è ritrovato al 16,8 per cento dei consensi dall’oltre 32 per cento del 4 marzo 2018, mentre Salvini al 32 per cento dall’iniziale 17 per cento. La sudditanza completa, l’inesistenza di un progetto politico su basi solide e di lungo respiro hanno di fatto portato i simpatizzanti e gli elettori storici del M5S ad allontanarsi.

Nonostante la cocente disfatta e le sempre più pressanti richieste di dimissioni arrivate dall’interno del M5S, nulla di fatto è cambiato nella gestione verticistica e personalistica del Movimento. La crisi di leadership di Di Maio non è solo un fatto che attiene alla perdita di consensi elettorali, ma è molto più profonda e sta macerando il Movimento 5 Stelle dall’interno, dalle sue fondamenta. I dissidenti in parlamento sono ormai svariate decine, in molti ormai mal sopportano la “deriva dell’uomo solo al comando” che Di Maio ha di fatto sancito nel corso degli ultimi 18 mesi.

Esattamente come “i vecchi arnesi della prima Repubblica”, anche Di Maio ha la tendenza a rimanere abbarbicato alla poltrona e a non voler rendere conto, in maniera trasparente, del proprio operato e dei propri risultati politici. Esattamente come “i vecchi politici”, per Di Maio non esiste accountability, nessuna presa di responsabilità di fronte ad eletti ed elettori per le débâcle elettorale. Solo scuse e nulla più. Ma il Movimento 5 Stelle degli albori era altro, i principi fondanti erano ben differenti, non assomigliava per nulla al partito democristiano e asservito al più forte in cui Di Maio e i vertici a lui più vicini l’hanno trasformato. E i risultati, infatti, parlano da soli.

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