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“Joker” sta diventando realtà: il capitalismo è una fabbrica di poveri e il mondo ha iniziato a ribellarsi

Immagine di copertina
Illustrazione: Emanuele Fucecchi

Le periferie del mondo come le strade della Gotham di Joker, incendiate dalla rabbia. Sta accadendo in Cile, proprio in queste ore. Ma è successo anche in Ecuador, la settimana scorsa, e anche in un luogo che sembrava molto lontano da queste latitudini, il Libano, ieri.

Domani potrebbe succedere ovunque nei luoghi dove i margini degli esclusi si sollevano, deflagrano e si ribellano. Salta il tappo del consenso rappresentativo, scoppiano rivolte contro il carovita che avvampano oltre i confini fisiologici della protesta contenibile con i parametri ordinari della pubblica sicurezza.

 

Queste rivolte crescono, tracimano come alluvioni, si risolvono in scontri con morti e feriti. Il Cile di questi giorni era lo specchio fedele di questo scenario: incendi, guerriglia di piazza, stato d’emergenza, coprifuoco.

Solo ieri il bollettino di guerra ha emanato un verdetto inquietante: dieci vittime a terra negli scontri di strada. Così, se vai a cercare il bandolo della matassa, per riavvolgere il filo fino al punto di partenza scopri che si parte sempre dallo stesso scenario.

La disuguaglianza, la povertà, l’insostenibilità politica e sociale della situazione economica – la corruzione – improvvisamente si fanno inaccettabili per una categoria sociale che (non) casualmente coincide con quella dei più poveri.

In Cile una protesta endemica aveva già iniziato ad avvampare per i costi esagerati dei farmaci e delle assicurazioni sanitarie, per l’aumento delle bollette della luce e per l’insostenibilità di un sistema educativo che costringe migliaia di famiglie a indebitarsi pur di far studiare i propri figli.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico a Santiago, che ha colpito soprattutto gli studenti e ha scatenato le proteste di questo fine settimana.

Ma lo scenario di fondo in cui tutti accade è ben illustrato dai macro dati della Banca Mondiale, secondo cui – insieme a Honduras, Colombia, Brasile, Guatemala, e Panama – il Cile è tra i cinque Paesi più diseguali al mondo dopo quelli africani.

Tuttavia nulla ci deve stupire, se è vero che persino nella civilissima e ricca Francia la rivolta dei Jilet Jaunes – l’anno scorso – era deflagrata per una imposta sui carburanti che colpiva il cuore della grande provincia e la faceva esplodere di rabbia contro la ricca capitale.

In Ecuador è accaduto qualcosa di molto simile. Per arginare le proteste sociali esplose su tutto il territorio nazionale a seguito del piano di austerità varato dal governo, la Corte Costituzionale del paese sudamericano ha convalidato lo stato di emergenza disposto a inizio mese dal presidente Lenin Moreno, limitandosi a dimezzarne l’applicazione temporale, fissata inizialmente a 60 giorni.

Il governo è stato spostato di sede, dalla capitale Quito a Guayaquil, per una misura precauzionale estrema. E nel paese la rivolta è esplosa contro il cosiddetto “paquetazo”, il pacchetto di misure anti-sociali sollecitato dal Fondo monetario internazionale che prevede, tra l’altro, l’eliminazione dei sussidi statali ai combustibili e la liberalizzazione del prezzo della benzina e del diesel. Ma anche contro la corruzione diffusa.

Anche in Ecuador c’è una categoria sociale che è diventata il motore della protesta ed è la Conaie, la potente Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador. Migliaia di indigeni e contadini provenienti da zone rurali di tutta la Sierra Andina, a piedi, in bus e camion, iniziavano a marciare sul palazzo presidenziale a Quito, annunciando di voler occupare simbolicamente l’assemblea nazionale.

Ed è a questo punto che la repressione attuata da forze di polizia e militari è diventata un pugno di ferro: cariche fino a tarda sera, bombe lacrimogene sparate anche nei pressi dell’ospedale che prestava soccorso ai feriti, o contro la Casa della Cultura, dove si erano rifugiati gruppi di indigeni, anziani, donne e bambini accorsi nella capitale per le proteste.

Gia prima del “paquetazo” la popolarità di Lelio Moreno era crollata per aver riportato il paese nell’orbita americana sottoscrivendo poi (a marzo) un patto con l’Fmi, con un prestito triennale di 4,2 miliardi di dollari, che poteva essere ottenuto solo a patto di attuare delle politiche di austerità e di rigore. Anche in Ecuador, solo nel giorno più incandescente della rivolta, restavano a terra tre morti e 600 feriti.

In Libano, invece, proprio come in Cile, sono stati protagonisti i più giovani. L’hanno chiamata immaginificamente “la rivolta di Whatsapp”, perché migliaia di persone infuriate si sono riversate in strada per chiedere la caduta del regime, dopo l’annuncio di una tassa che avrebbe dovuto colpire addirittura un social network. La prima rivolta sociale e digitale insieme.

Ma era ancora una misura contro i più poveri, contro chi comunica, contro i migranti in un paese di profughi. Per ridurre il debito del paese infatti (uno dei più alti al mondo) erano state introdotte varie misure drastiche e impopolari tra cui quella di una tassa di 20 centesimi al giorno per le chiamate via internet realizzate per risparmiare i canoni della telefonia attraverso app come, appunto, WhatsApp e Facetime.

A nulla è servita la precipitosa e maldestra revoca del provvedimento: una folla di persone si è radunata vicino alla sede del governo e al palazzo del parlamento nel centro di Beirut, protetta da plotoni di poliziotti in tenuta anti sommossa.

I manifestanti hanno lanciato slogan estremi e sintetici: “Rivoluzione!” e “Ladri!”. E anche qui la protesta contro la diffusa corruzione del paese si sposa alla protesta sociale. Ovunque sono rivolte di popolo, spesso con un innesco di rabbia disperata, che si rivolgono contro élites (o presunte tali) screditate ed eterodirette.

È la rabbia populista che si sostituisce al vuoto di potere, alla decadenza, al discredito delle istituzioni che – non a caso – da un paese all’altro, da un continente all’altro, diventano un bersaglio della protesta, con i luoghi della rappresentanza che si trasformano in scenario di assedio e di guerra.

Sembra la visione profetica del Joker di Todd Philips, giustamente acclamato nell’ultimo festival al di Venezia. Film profetico ed epocale. Nella magistrale interpretazione di Joaquim Phoenix l’Occidente e l’America sono raffigurati in uno spettrale scenario di decadenza: rifiuti, taglio dei servizi sociali essenziali, onnipresenza ossessiva della televisione, disperazione diffusa, povertà.

La New York livida, povera e violenta degli anni Settanta, diventa la profezia distopica di tante metropoli assediate dei nostri giorni. La ribellione che nel film esplode è innescata dal delitto e dal disagio di un singolo (uno strepitoso Phoenix, sempre in bilico tra riso e pianto), ma affonda nelle stesse radici, si alimenta degli stessi sentimenti.

Forse – tra il “Paquetazo” e “WhatsApp” – questo film dovrebbe aprirci gli occhi su queste rivolte che hanno radici antichissime nella tradizione dei moti di plebe, e un tocco postmoderno, che crepa la facciata ottimistica della modernità. Ci eravamo illusi di aver debellato la povertà: le abbiamo solo cambiato nome, ribattezzandola “disagio”.

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