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Il doppio standard è un male anche per Israele

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Credit: AP

Troppa indulgenza verso lo Stato ebraico. Il raid di Damasco rischia di essere la miccia di un’escalation pericolosa. Eppure chi lo fa notare viene censurato. La vera minaccia per Tel Aviv è il suo premier

Il vero nemico di Israele, purtroppo, è alla sua guida. Basti pensare all’ondata di solidarietà, spontanea e doverosa, che aveva ricevuto lo Stato ebraico in seguito all’attacco del 7 ottobre ad opera di Hamas e a ciò che sta accadendo oggi. Le università occidentali ribollono, ragazze e ragazzi chiedono ai rettori di interrompere ogni collaborazione con gli atenei israeliani, nelle piazze si manifesta apertamente a favore del popolo palestinese, vittima di una mattanza senza precedenti, e fenomeni di anti-semitismo stanno riaffiorando in tutto l’Occidente. 

Non sono tutti impazziti. Per quanto determinate azioni siano intollerabili, sarebbe opportuno che la comunità ebraica, nella sua interezza, oltre a condannare la furia del terrorismo arabo, esprimesse parole altrettanto dure nei confronti di un esecutivo che sta isolando come mai prima il proprio Paese. 

Il ruolo dei media
E qui si inseriscono i mezzi d’informazione. Spiace dirlo, ma a furia di non distinguere la realtà dalla propaganda, abbiamo finito col mentire persino a noi stessi. Il gravissimo attacco al consolato iraniano a Damasco dello scorso primo aprile, nel quale è rimasto ucciso Mohammad Reza Zahedi, uno dei pasdaran più illustri del sistema di potere politico e militare di Teheran, il più importante soggetto assassinato dai tempi dell’omicidio di Qassem Soleimani ad opera dell’amministrazione Trump, potrebbe innescare un’escalation dalle conseguenze imponderabili. 

Qualcuno obietta: Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. È talmente vero che non si contano più le manifestazioni oceaniche contro il suo governo, mai così impopolare e criticato, benché giustificato, in qualche modo, per via del contesto bellico nel quale si trova ad agire.

Manifestazioni che dovrebbero indurci a ragionare sul fatto che quello di Teheran è certamente un regime in cui gli oppositori talvolta vengono impiccati, è sì una teocrazia con pericolose mire atomiche ed espansionistiche, è sì un Paese col quale siamo stati fin troppo indulgenti in passato, ma al tempo stesso è un interlocutore che non possiamo ignorare. Anche perché dovrebbe essere ormai chiaro a chiunque che un conflitto in quella regione non sarebbe territoriale: potrebbe costituire la miccia che innesca il focolaio globale, assai più della tragedia ucraina che, in confronto, è una scaramuccia. 

Huntington
Per comprendere la portata dello scenario mediorientale, bisogna conoscere il finale de “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, capolavoro di Samuel Huntington, ossia di un analista che si può condividere o meno ma la cui lucidità di pensiero si è rivelata, ahinoi, profetica. 

Scrive Huntington: «Nello scontro di civiltà in atto, Europa e America sono destinate a restare unite o a perire. Nel più generale scontro – il “vero scontro” planetario – tra Civiltà e barbarie, le maggiori civiltà del mondo, con tutte le loro conquiste conseguite nel campo della religione, dell’arte, della letteratura, della filosofia, della scienza, della tecnologia, della moralità e pietà umana, sono anch’esse destinate a restare unite o a perire. Nell’epoca che ci apprestiamo a vivere, gli scontri di civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal pericolo di una guerra mondiale». 

Si tratta senz’altro di una visione conservatrice, che presuppone una superiorità dell’Occidente rispetto al resto del mondo – civiltà o barbarie, per l’appunto – ma questa previsione contiene un fondo di verità. Nel nuovo ordine mondiale, di natura multipolare, non si può prescindere da un confronto, magari col coltello fra i denti, fra i vari universi del nostro pianeta. 

Illusione occidentale
L’illusione post-’89 di un Occidente egemone, in grado di imporre il proprio modello senza sparare un colpo, con la sola forza della penetrazione commerciale e dell’asservimento del resto dell’umanità al nostro modo di vivere, si è rivelata una catastrofe. 

L’ex Terzo mondo ormai ha deciso di fare fronte comune, si è riunito in una coalizione chiamata Brics, destinata a crescere di numero e di influenza, al punto di sfidare il ruolo globale del dollaro, e intende rispondere colpo su colpo. Da qui, l’alleanza fra l’Iran degli ayatollah e Russia e Cina. E non basta più gridare al dispotismo, perché a questi Paesi va benissimo così. Siamo noi a doverci adattare: non siamo più nelle condizioni di “esportare la democrazia” a suon di bombe. Dobbiamo imparare a riconoscere il ruolo degli altri, i loro costumi, le loro tradizioni e il loro diritto a essere attori protagonisti sullo scacchiere globale. 

Uomini del passato
Biden e Netanyahu, benché diversi e nemici, sono entrambi uomini del passato. Appartengono alla stagione in cui l’America costituiva il baricentro del pianeta e Israele il guardiano del Medio Oriente, uniti da un legame inscindibile. Non è più così. 

L’America è oggi attraversata da spinte centrifughe, ha al proprio interno una forte comunità musulmana e il Partito Democratico è spaccato sugli aiuti a Israele, specie se si considera chi lo guida e chi sono i suoi alleati. 

Quanto a Israele, è una nazione in preda al caos, in cui negli ultimi anni si è votato più volte, caratterizzato da un’instabilità politica mai vista prima e bisognoso di moderazione. O verrà fuori – non si sa come, dato che le guerre tendono sempre a estremizzare e radicalizzare le fazioni coinvolte – una maggioranza capace di tenere a bada i coloni e dar vita a un pieno riconoscimento dello Stato palestinese o lo scontro col resto del mondo arabo sarà sempre più sanguinoso. 

E guai a illudersi che gli Accordi di Abramo o la coalizione che pure ha salvato Israele dalla risposta militare iraniana, comprendente alcuni Paesi Nato e persino la Giordania, possa reggere a lungo. Le opinioni pubbliche mediorientali odiano Israele e le loro pressioni, per quanto non si tratti di democrazie, si faranno sentire eccome. 

Il massacro di Gaza
Sostenere Israele, pertanto, significa, oggi più che mai, contrastarne la classe dirigente, scrivere espressamente che sta conducendo un intero popolo nel baratro, riaccendendo sentimenti di ostilità che non si vedevano da tempo, e appellarci alla forza del suo panorama giornalistico e intellettuale affinché si impegni in prima persona per sostituirla. 

Il massacro di Gaza, infatti, è il più grande regalo che Netanyahu possa fare a chi non ha mai nascosto di voler eliminare lo Stato ebraico. E significa anche, e questo è un discorso rivolto al nostro interno, dire espressamente a determinati colleghi e opinionisti che c’è una bella differenza fra il diritto alla difesa e quello alla vendetta. Il primo è universalmente riconosciuto, il secondo no, almeno in Occidente. 

Infine, un appello alla socialdemocrazia tedesca: ritrovi se stessa. Sapere che in Germania sia stato impedito di parlare a Nancy Fraser e Yanis Varoufakis ci induce a replicare che, prima di giungere ai lager, il nazismo ha bruciato i libri e messo a tacere i dissidenti. Proprio dall’Spd che fu abbiamo imparato a condannare entrambi i crimini.

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