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Home » Opinioni

Feto sepolto a Roma, noi donne invisibili e colpevoli con un nome sulla croce

Immagine di copertina

Ci si sottopone a un aborto terapeutico. Si risponde a una serie di domande sul destino di quel feto che per settimane o mesi si è portato in grembo. Si compiono scelte, dolorose e surreali. Si porta avanti la vita cercando di tenere a bada quelle cicatrici. Si cerca di dare un senso a quel cerchio che pare non chiudersi mai. Poi, un giorno, si scopre che quel feto – nonostante si sia scelto di non seppellirlo – è stato sepolto in un cimitero, con una croce. In un cimitero, con una croce, che porta il tuo nome.

S&D

La storia raccontata in un post su Facebook da una donna che ha fatto questa terribile scoperta porta con sé significati pesanti e serissimi che non possono essere risolti così in fretta.

Sopra ogni cosa c’è la violazione della privacy e c’è un aspetto di illegalità che impone di essere indagato e verificato. C’è la violazione delle volontà di un essere umano. Qualcuno ha scelto al tuo posto. Qualcuno ha scelto nonostante tu abbia ben chiarito le tue volontà e farlo, comunque, non è stato come scegliere una marca di uno yogurt. Ma questo non conta. C’è una volontà altra che ignora il tuo dolore e le tue fatiche.

Ma non basta questo. Si deve anche subire la decisione che quella sepoltura porti una croce, nonostante quella croce non rispecchi le tue scelte religiose. E si deve subire la scelta – degna della migliore gogna – che quella croce porti il tuo nome. Il pensiero non può non cadere sulla terribile tendenza diffusa a imprigionare le donne nell’unico ruolo di fattrici, mere esecutrici di un compito che – ahinoi – qualche volte non eseguiamo al meglio, o non eseguiamo affatto.

Così, qualcuno si prende la briga di scavalcarti, di definire l’assoluta trasparenza della tua volontà, perché hai esaurito la tua funzione – o disfunzione – e come un oggetto inutile puoi essere messa nel ripostiglio. Ma la vicenda accaduta a Roma (il feto è stato seppellito nel cimitero capitolino di Flaminio) è ben più seria di come ora la si sta illustrando. È grave perché accade a Roma, nella capitale, in un ospedale pubblico, è grave perché testimonia come una donna debba ancora vigilare sulla propria libertà e debba difendersi anche da chi è deputato a proteggerla.

Questa vicenda è grave perché racconta di una solitudine, di tante solitudini. Di tante donne che nella vita hanno dovuto fronteggiare scelte immani e poi si sono dovute giustificare. Hanno dovuto riaprire ferite, hanno dovuto anteporre la razionalità ai sentimenti. Questa vicenda è seria e grave perché è l’esempio plastico di come siamo lontani da una realizzazione di donna moderna, compiuta in una definizione finalmente libera.

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