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After life: nella seconda stagione Ricky Gervais insegna ad accettare la felicità

Immagine di copertina

After Life: la recensione della stagione 2 (di Selvaggia Lucarelli)

Ricky Gervais è uno che sa di essere bravo. E il meglio di sé Gervais lo dà nelle serie tv, paradossalmente proprio perché è nelle serie tv che Ricky esce dalla sua sarcastica, inarrivabile bolla egoriferita e regala il suo talento agli altri. Che è una dote rara, nei comici di razza e ancor più in quelli che arrivano dal mondo della stand up comedy, in cui “gli altri” sono quelli che partecipano al proprio successo, al massimo, con gli applausi. After life, invece è il successo corale di Ricky Gervais. Una serie in cui c’è “anche Ricky Gervais”, col suo cinismo, con la sua spietatezza, con l’aria di chi ha capito il mondo meglio degli altri e forse per questo ci vive dentro con insofferenza. Una serie in cui però ci sono soprattutto gli altri, i personaggi che Gervais ha dipinto con delicatezza, ironia e candore a rendere After life qualcosa di unico nel suo segmento.

S&D

Gervais è Tony, un giornalista di provincia che ha perso la moglie Lisa per un cancro e rifiuta l’dea di una nuova felicità. Di una vita “dopo”. Attorno a lui gravita una serie di personaggi che assolvono ogni sua sgradevolezza, ognuno con una sua bontà e un suo passo troppo incerto nel mondo per giudicare. C’è il postino senzatetto con le sue cuffie e la vita contenta di chi non cerca risposte. C’è il direttore che non chiede nulla alla sua vita media, finché alla moglie la vita media non basta più. C’è la splendida, generosa Daphne che fa la prostituta e diventata la migliore amica di Tony ma pure degli spettatori, perché quando c’è lei sullo schermo la storia si illumina di una luce benevola e assolutoria.

C’è Anne, la vedova al cimitero, l’unica persona con cui Tony riesce ad essere onesto. Perché la dolce Anne ha il suo stesso dolore e come lui, nel dolore, è immobile, non a caso sempre seduta su quella panchina. C’è la sua redazione sgangherata con la tenera Sandy, il collega famelico, la segretaria fastidiosa e, nella quotidianità pigra di una cittadina in cui non succede nulla, le incursioni dell’amico sessuomane che poi appare anche in Derek, la serie forse più riuscita e poetica di Ricky Gervais.

E poi ci sono le due donne, il prima e il dopo. Lisa, la sua ex moglie, che Tony continua a riguardare in vecchi filmati e che esplode nella sua risata fragorosa dopo gli scherzi scemi del marito. Che gli lascia dei messaggi per quel “dopo” che sa già sarà senza di lei. E c’è Emma, l’infermiera che cura suo papà, la porta dischiusa sulla felicità. Ed è proprio Emma l’unico personaggio che non assolve Tony nel suo cinismo, perché sa che Tony, circondato da persone che danno amore senza chiedergli amore in cambio, potrà sopravvivere, ma non ricostruire. Non c’è felicità senza scambio e lei, pur amandolo già, non accetta il Tony mutilato e rabbioso a cui la felicità sembra un torto alla ex moglie.

È un mondo di persone buone, quello attorno a Tony, di persone che bilanciano il suo cinismo resistente a tutto. Di persone che non giudicano, che perdonano, che accarezzano. Ed è come se quest’universo fuori di sé senza accuse e senza giudizi fosse il poetico bilanciamento dell’io più profondo di Tony e dello stesso Gervais, che sul giudizio feroce, sull’osservazione spietata del prossimo ha costruito talenti e successo. Non a caso, forse, nella serie l’unico personaggio negativo ben oltre il patologico è chi giudica, chi analizza per mestiere: lo psicologo.

After life, nella prima e nella seconda stagione, segue le fasi del lutto, accompagna il livore feroce dell’inizio e poi la fase della decantazione. Si ride di più nella prima stagione, complessivamente meglio riuscita, si piange di più nella seconda che è meno risolta, più arenata, meno ben scritta ma inspiegabilmente più coinvolgente. Si smette, forse, di chiedere a Ricky Gervais di farci ridere. E forse Ricky Gervais si sente libero di rinunciare a qualche gag per affondare, definitivamente, la penna nel sentimento.

Non succede niente, o quasi, nella seconda stagione. Ma forse, in fondo, è quel niente che succede quando si smette di soffrire e si accetta la vita per quello che è, quando dopo una perdita si accetta l’ipotesi che nei giorni a venire possa succedere di tutto. Perfino di essere felici un’altra volta. Magari con un cane lupo che gira per casa e una donna che bussa alla porta, prima che scorrano i titoli di coda.

Leggi anche: 1. La Casa di Carta è sopravvalutata: è solo “Un Posto al Sole” con un budget più alto (di M. Giorgi) / 2. Unorthodox, la sorprendente miniserie che ricostruisce da capo un’esistenza mai nata (di M. Delisio)

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