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Elezioni Israele: si è parlato di tutto tranne che di Gaza. Il leader delle proteste nella Striscia parla a TPI

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Credit: ACK GUEZ/AFP

Il 9 aprile 2019 tutti gli occhi sono puntati su Israele in attesa dei risultati delle urne per capire se il Governo resterà nelle mani del premier uscente Benjamin Netanyahu o se a vincere sarà il suo principale sfidante, l’ex generale Benny Gantz.

S&D

A prescindere dal risultato delle urne, vi saranno questioni che rimarranno del tutto invariate: prima fra tutte quella palestinese.

Di Gaza, Territori occupati o di creazione di uno Stato palestinese non si è quasi parlato in campagna elettorale, nonostante gli ultimi raid di Israele sulla Striscia in risposta al lancio di un razzo contro Tel Aviv.

Ma episodi simili sono ormai così comuni nella narrazione della questione israelo-palestinese da apparire normali, quasi monotoni, sicuramente poco interessanti e molto spesso confusionali, nebulosi.

La Striscia di Gaza, si sa, è una prigione a cielo aperto, un luogo che nel 2020 secondo l’Onu sarà invivibile, in cui la disoccupazione ha raggiunto il 70 per cento, dove l’energia elettrica funziona solo per 4 ore al giorno e in cui l’acqua potabile è ormai un lusso. Per non parlare dei problemi igienici, della carenza di medicinali e di strutture ospedaliere adeguate, oltre che dell’impossibilità dei suoi abitanti di uscire dalla Striscia.

Leggere tutto d’un fiato quali sono le condizioni di vita in cui gli abitanti di Gaza sono costretti a sopravvivere (ed è bene sottolineare che si tratta di persone che non hanno scelta, che non hanno modo di andar via né di cambiare la loro situazione restando) dovrebbe far riflettere. Anzi, dovrebbe far “indignare”, come va di moda dire adesso.

Invece no. Tutto quello che si sente in risposta è silenzio. Un silenzio assordante, totale, che annienta anche chi cerca di alzare la voce, chi grida con quanto fiato ha in gola: “Vogliamo vivere”.

“Vogliamo vivere”. Silenzio. “Vogliamo vivere”. Ancora silenzio. Finché il grido non si affievolisce, diventando una voce che si perde tra le altre. Ma che resiste, testarda, in attesa che qualcuno la raccolga.

TPI ha sentito telefonicamente Moumen al Natour, leader del “14th March Movement”, un movimento pacifico nato dal basso che ha riunito intorno a sé gli abitanti di Gaza che chiedono condizioni di vita migliori.

Al Natour, che aveva già rilasciato un’intervista a TPI, è stato dieci giorni in prigione a causa del suo ruolo nella manifestazioni.

“Abbiamo iniziato a protestare contro la situazione invivibile nella Striscia di Gaza. Viviamo in condizioni di estrema povertà, la disoccupazione è a livelli altissimi, e il peggio è che non credo ci sia una soluzione politica e umanitaria in vista”.

“Le proteste hanno avuto larga partecipazione tra i giovani, ma non solo”, ha spiegato Moumen al Natour. “Le nostre richieste sono semplici, anzi in qualsiasi altro paese sarebbero considerate ‘antiquate'”.

“Vogliamo smettere di pagare le innumerevoli tasse che gravano su di noi, chiediamo un lavoro; il pagamento dei salari pubblici (che si tratti di dipendenti di Hamas o dell’Autorità nazionale palestinese); energia elettrica e acqua pulita sempre e non poche ore al giorno; il diritto alla libertà di movimento; sostegno alle fasce più deboli della popolazione; una riconciliazione nazionale per la creazione di uno Stato palestinese nei confini del 1967”.

Richieste semplici, quasi assurde. Perché nel 2019, quando il nostro maggior “disagio” è restare momentaneamente senza connessione internet, c’è ancora chi deve lottare per avere acqua corrente pulita ed energia elettrica, per vedere riconosciuti i diritti più semplici.

“Ciò che più mi rattrista è che non abbiamo ricevuto alcun aiuto concreto dalla Comunità internazionale. Intanto Israele continua ad umiliarci, a distruggere i nostri sogni. Nessun governo, che sia di destra o di sinistra, sosterrà mai la creazione di uno Stato palestinese indipendente”.

Come spiega al Natour, dopo il suo arresto e il raid delle forze israeliane contro la Striscia le manifestazioni si sono fermate, anche a causa della repressione portata avanti da Hamas.

“Ma non la nostra richiesta di avere una vita migliore non si ferma. Continueremo fino alla fine, non abbiamo nulla da perdere”.

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