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Home » Esteri

Generazione Mamdani: così il fronte dei sindaci progressisti sfida i nuovi nazionalismi. Da Trump a Orban

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Il neosindaco eletto di New York, Zohran Mamdani. Credit: Andrew Schwartz/SIPA / AGF

Da Boston e Città del Messico a Londra, da Amsterdam ad Atene e Zagabria fino a Budapest e Istanbul: i primi cittadini contro l’autoritarismo e l’estrema destra nel nome di diritti, uguaglianza, ambiente e libertà

Zohran Mamdani non è solo. La vittoria elettorale del neosindaco di New York è l’ultimo capitolo dello scontro tra due diverse visioni del mondo: da un lato i sindaci progressisti delle grandi metropoli e dall’altro l’ondata nazionalista alimentata dal ritorno alla Casa bianca di Donald Trump e dai suoi alleati di estrema destra in giro per il mondo.
Immigrato di fede musulmana, l’ex rapper nato nella capitale ugandese Kampala da genitori di origini indiane (il padre Mahmood professore universitario di studi post-coloniali e la madre Mira Nair regista candidata ai Premi Oscar), è cresciuto a Città del Capo, nel Sudafrica post-apartheid, prima di approdare con la famiglia a New York. La storia del prossimo sindaco socialista democratico della più grande città degli Usa è l’emblema di una generazione allevata a pane e multiculturalismo. Ma non è il solo: come Zohran Mamdani, altri primi cittadini di grandi metropoli, da Londra ad Atene, da Amsterdam a Budapest, rappresentano una risposta politica e simbolica all’ascesa della destra radicale. Ad accomunarli non sono solo le loro biografie e gli attacchi subiti dai loro detrattori ma soprattutto una certa visione del mondo.

“Una visione gioiosa e positiva”
Quando nel giugno dello scorso anno durante un dibattito per le primarie democratiche municipali a New York, ai candidati fu chiesto di nominare il politico più “efficace” del loro partito, il prossimo sindaco della Grande Mela rispose convinto: “Michelle Wu”, la prima cittadina di Boston, che nelle stesse ore in cui Mamdani otteneva la sua vittoria elettorale veniva riconfermata per un secondo mandato alla guida della capitale del Massachusetts.
Nata a Chicago appena sei anni prima del suo collega di partito, è anche lei figlia di immigrati, originari di Taiwan, e nel 2021 divenne la prima donna, nonché la prima persona di origini asiatiche, ad essere eletta sindaca della città. Laureata ad Harvard, Wu è da anni nel mirino della destra trumpiana per le sue posizioni pro-choice in tema di aborto, per il suo sostegno al bilancio partecipativo e alla legalizzazione della cannabis per uso ricreativo, ma soprattutto per le politiche a favore dell’ambiente, degli immigrati e contro il razzismo. Non a caso, sin dal ritorno di Donald Trump alla Casa bianca, si è scontrata prima con i repubblicani al Congresso e poi direttamente con la Procuratrice generale Pam Bondi per difendere la sua città come “santuario” contro le retate anti-immigrati della United States Immigration & Customs Enforcement (Ice) potenziata dal presidente.
Durante il suo primo mandato però aveva già promosso politiche invise all’estrema destra statunitense, firmando un nuovo contratto con il sindacato di polizia locale che rende più facile licenziare gli agenti che commettono reati; ampliando l’accesso agli asili pubblici; promuovendo lo sviluppo di migliaia di nuove abitazioni per abbassare i prezzi immobiliari; rendendo gratuito il trasporto pubblico in alcune zone della città; e imponendo limiti al ricorso ai combustibili fossili per alimentare gli edifici di proprietà comunale. Ma soprattutto, dopo la pandemia di Covid-19, aveva lanciato il “Boston Green New Deal” per riconvertire l’intera produzione elettrica cittadina alle rinnovabili entro il 2030 e per azzerare le emissioni inquinanti entro il 2040. Politiche che, dopo sette anni da membro del Consiglio comunale e quattro da sindaca, le hanno permesso di sconfiggere Josh Kraft, figlio di Robert, proprietario dei New England Patriots e grande sostenitore di Donald Trump, ritiratosi dalla corsa dopo aver perso malamente le elezioni preliminari contro Wu.
“Le persone hanno bisogno che il governo lavori, che faccia le cose, che adotti misure che possano effettivamente migliorare la vita delle persone”, ha detto la sindaca di Boston dopo la propria vittoria, commentando il successo di Mamdani. “Molte delle idee proposte, dall’importanza dell’accesso all’assistenza all’infanzia a trasporti affidabili, gratuiti e convenienti, sono le stesse su cui abbiamo lavorato anche qui a Boston e su cui abbiamo mostrato passi avanti davvero importanti”, ha aggiunto in seguito. I due infatti non solo condividono la stessa visione politica ma erano in contatto già durante la campagna elettorale: secondo il Boston Globe, la sindaca ha sostenuto Mamdani “in silenzio”. “Mi sono appena congratulata con lui e l’ho ringraziato per aver condotto una campagna tanto stimolante, incentrata su persone reali e sui cambiamenti concreti necessari per migliorare la vita quotidiana dei suoi elettori”, aveva detto Wu durante la notte elettorale. “È incoraggiante vedere che qualcuno che ha condotto una campagna basata su una visione gioiosa e positiva di realizzare cose che contano davvero per le persone abbia la meglio su milioni di dollari di pubblicità offensive negative e su una visione molto più cupa di cosa sono le città e di cosa rappresentano”. Analogie che arrivano anche Oltreoceano.

“Speranza contro la paura”
Era il maggio del 2016 e mentre il Regno Unito votava per uscire dall’Unione europea e Sadiq Khan veniva eletto per la prima volta sindaco di Londra, il giovane Zohran Mamdani si lasciava ispirare dalla campagna presidenziale del senatore Bernie Sanders negli Stati Uniti. Il parallelo più evidente per i detrattori del prossimo sindaco della Grande Mela, soprattutto dal punto di vista religioso, lo lega proprio al primo cittadino della capitale britannica, oggi al suo terzo mandato. In campagna elettorale, gli oppositori di Khan e Mamdani (nel 2016 come nel 2025) hanno accusato i loro avversari di legami con l’estremismo jihadista, malgrado la piattaforma politica proposta puntasse decisamente sulle risposte economiche ai problemi dei lavoratori e del sottoproletariato urbano sia londinese che newyorkese.
Entrambi musulmani e figli di genitori immigrati, sono stati attaccati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che bollò il primo come “una disgrazia” e “un perdente assoluto” e il secondo come “un comunista” minacciando addirittura di espellerlo e di revocare i fondi federali a New York. Ma i due politici sono in realtà piuttosto diversi. Khan, che pur avversandola ha guidato Londra attraverso la Brexit, assume posizioni più centriste del collega statunitense, che ha forse maggiori affinità con l’ex segretario dei laburisti britannici Jeremy Corbyn, contro cui il sindaco si schierò già nel 2016, tre anni prima delle sue dimissioni.
Molto vicini sulle questioni internazionali, avendo entrambi accusato Israele di “genocidio” a Gaza e battendosi contro la stretta sull’immigrazione dei rispettivi governi, in politica il neosindaco di New York appare più a sinistra del collega britannico. Per vincere Mamdani ha infatti puntato decisamente sull’accessibilità economica ai servizi pubblici per tutti e sulla redistribuzione della ricchezza mentre Khan è rimasto più in linea con l’establishment, concentrandosi sul tentativo di calmierare i prezzi degli alloggi e dei trasporti pubblici e su iniziative ambientaliste come la riduzione della congestione del traffico e la tutela della qualità dell’aria. Ma le somiglianze sono più importanti delle differenze, soprattutto per i loro avversari.
“Siamo tutto ciò che Donald Trump odia: città aperte, liberali e prospere”, ha detto Sadiq Khan a margine del Forum dei Leader Locali della Cop30 a Rio de Janeiro dopo la “fantastica vittoria” di Mamdani. “Londinesi e newyorkesi hanno scelto la speranza, non la paura”. Un sentimento condiviso anche sul continente.

“Santuari contro l’autoritarismo”
In politica dai primi anni Duemila, Femke Halsema non appartiene di certo alla generazione di Mamdani e supera di qualche anno anche il sindaco di Londra ma come loro si batte contro “l’imminente crollo dell’ordine democratico civile”, minacciato secondo l’esponente della Sinistra Verde olandese dall’ondata di estrema destra che sta investendo l’Europa e il resto del mondo. Nominata sindaca di Amsterdam nel 2018 e prima donna a ricoprire tale incarico non solo ad interim, Femke Halsema ha fatto della tutela dell’ambiente e dei diritti delle donne e delle minoranze il centro della sua politica. Ma la prima cittadina olandese ha sempre mantenuto un occhio aperto anche all’estero.
Nel giugno 2020 subì una mozione di sfiducia perché durante il lockdown disposto per contenere la pandemia di Covid-19 non solo non intervenne per impedire una manifestazione in Piazza Dam a favore del movimento Black Lives Matter ma partecipò in prima persona al corteo di protesta contro la morte di George Floyd, ucciso il mese prima da un poliziotto a Minneapolis, in Minnesota. L’anno successivo si è scusata per il ruolo svolto storicamente dalla sua città nella tratta degli schiavi. Riconfermata per un secondo mandato di sei anni nel luglio 2024, a novembre dello stesso anno si ritrovò al centro delle polemiche internazionali per aver dapprima definito “pogrom” gli scontri provocati dagli ultras israeliani del Maccabi Tel Aviv con alcuni dimostranti filo-palestinesi in vista della gara di Europa League con l’Ajax e poi per aver fatto marcia indietro, criticando la gestione del caso da parte del governo dello Stato ebraico. La sua battaglia da sinistra però abbraccia idealmente tutto il mondo.
“I veri liberi pensatori sono anche femministi, perché chi si batte per la libertà di solo metà della società, in ultima analisi, non si batte per nessuno. E il vero femminismo deve sempre essere liberale, perché che senso ha liberarsi dal giogo del sessismo e della misoginia, solo per poi sottomettersi ad altre forme di mancanza di libertà?”, ha scritto in un editoriale pubblicato lo scorso mese su Het Parool prima del sostanziale pareggio alle legislative tra liberali, estrema destra e conservatori alle elezioni del 29 ottobre scorso. “Basta guardarsi intorno: il regime teocratico iraniano, l’ultranazionalismo di Putin e il patto tossico tra miliardari delle Big Tech e trumpiani mostrano somiglianze profondamente inquietanti: i loro programmi sono antidemocratici, contrari allo stato di diritto e contro le donne. E non è una coincidenza”. Così la vittoria del 34enne a New York l’ha esaltata: “Zohran Mamdani ha dimostrato al mondo che le città possono essere santuari contro l’autoritarismo e che le libertà e i diritti sociali dei nostri residenti devono essere sempre difesi”, ha scritto sui social.

“Cambiamento e trasformazione”
“Il tema principale della campagna di Zohran è stato l’accessibilità: alloggi, asili e trasporti pubblici”, le ha fatto eco sui social il 43enne primo cittadino di Zagabria, Tomislav Tomašević, da giugno al suo secondo mandato alla guida della capitale della Croazia con un programma basato sulla difesa delle minoranze e sugli investimenti in trasporti pubblici, scuole, impianti sportivi e di trattamento dei rifiuti. “Questi sono argomenti importanti per me e per molti sindaci progressisti in tutto il mondo. Zohran e i cittadini di New York hanno scelto il cambiamento”. “Celebriamo il suo impegno verso l’inclusione, il benessere e la giustizia sociale e territoriale, valori che guidano anche la nostra trasformazione”, ha aggiunto da Città del Messico la sindaca Clara Brugada, da poco più di un anno alla guida della capitale messicana con una piattaforma politica volta a migliorare la sicurezza delle donne, alleviare la crisi idrica cittadina, prevenire gli sfratti e dare priorità agli alloggi in affitto per i giovani con prelazione di acquisto. “La sua vittoria è un faro di speranza per coloro che credono nel diritto alla città e nei governi che mettono al centro le persone”, ha proseguito la prima cittadina, che guida una giunta composta in maggioranza da donne. “Vi auguriamo il più grande successo davanti a una delle città più varie e vibranti del mondo. Che insieme continuiamo ad abbattere muri e a costruire ponti che uniscano i nostri popoli nella ricerca comune di un mondo più giusto, solidale e pieno di utopie”.

“Proposte chiare”
Chi però ha appoggiato Mamdani sin dall’inizio è il sindaco di Atene, Haris Doukas. “Democratico, socialista, immigrato, musulmano, appoggiato soprattutto da volontari, ha sfidato l’establishment e propone, tra le altre cose, il congelamento degli affitti e autobus gratuiti affinché, come sostiene, i newyorkesi possano vivere dignitosamente nella città della disuguaglianza e dell’esclusione”, aveva scritto sui social il sindaco socialista della capitale greca dopo la vittoria alle primarie democratiche del 34enne. “Quando le forze progressiste chiamano le cose con il proprio nome…”, aveva chiosato Doukas.
Eletto nell’ottobre 2023 al secondo turno con l’appoggio di una coalizione guidata dal Pasok e il sostegno al fotofinish di Syriza, l’ingegnere e professore universitario aveva convinto l’elettorato sulla base di un programma ambientalista per “un’Atene verde, pulita e dinamica”. Il suo modello dichiarato è la Barcellona dell’ex sindaca Ada Colau e del suo allora vice e attuale primo cittadino del capoluogo catalano Jaume Collboni e la Parigi della futura ex sindaca Anne Hidalgo (tutti sostenitori a vario titolo di Mamdani). Per questo ha promesso di piantare oltre 25mila alberi in città contro la canicola estiva; di promuovere il car-pooling per ridurre traffico e inquinamento; di installare pannelli solari sugli edifici comunali per alimentare le scuole della capitale; di contrastare gli affitti brevi in centro-città; e di ricorrere persino all’intelligenza artificiale per gestire i flussi turistici e l’accoglienza.
Doukas però è assurto all’onore delle cronache internazionali ad agosto per aver risposto per le rime all’ambasciatore di Israele in Grecia, Noam Katz, che al quotidiano Kathimerini aveva prima lamentato il “disagio” dei turisti israeliani in visita ad Atene a causa dei graffiti antisemiti realizzati in città da “minoranze organizzate” e poi aveva accusato il sindaco di non intervenire. “Abbiamo dimostrato la nostra ferma opposizione alla violenza e al razzismo e non prendiamo lezioni di democrazia da chi uccide civili”, aveva risposto sui social il primo cittadino della capitale ellenica. “Atene, capitale di un Paese democratico, rispetta pienamente i suoi visitatori e sostiene il diritto alla libera espressione dei suoi cittadini. È rivoltante che l’ambasciatore si concentri sui graffiti (che sono stati chiaramente cancellati) mentre a Gaza è in corso un genocidio senza precedenti”. Una posizione che era valsa al sindaco del Pasok il plauso della sinistra, non solo in Grecia.
Candidato de facto alla guida dell’opposizione contro il governo di Nuova Democrazia del premier Kyriakos Mitsotakis, in una recente intervista a Kathimerini ha escluso che il ruolo di sindaco e quello di leader anti-governativo siano alternativi: “Atene è una città vivace: ha orecchie, voce, esigenze e slancio creativo. Essere sindaco (…) è in effetti estremamente impegnativo ma credo che negli ultimi due anni siamo riusciti a difendere la capitale e i suoi cittadini”, ha detto Doukas. “Posso solo chiedermi se sia ‘antigovernativo’ contrastare il Nuovo Codice Edilizio per impedire l’ulteriore speculazione ad Atene e l’imposizione della tassa sulle discariche per evitare che i residenti debbano pagare imposte esorbitanti. Io devo rispondere alle persone che mi hanno eletto ogni giorno su questioni specifiche: meno cemento nei quartieri, meno tasse comunali e più politiche sociali per il bene comune”. Un programma molto vicino al prossimo sindaco di New York. “Mamdani ha vinto perché le sue posizioni sono chiare. Non sono state erose dall’influenza di scelte oligarchiche e speculative”, ha scritto sui social il sindaco di Atene dopo la vittoria del 34enne nella Grande Mela. “La lotta continua”, ha concluso. Specie a certe latitudini.

“Lotta per la democrazia”
“Quando il potere centrale ha cercato di mettere a tacere le scelte della maggioranza, (Mamdani, ndr) si è mostrato inflessibile e ha vinto: da Budapest conosciamo questa lotta, una vittoria per una visione sociale coraggiosa”. Gergely Karacsony, sindaco della capitale ungherese, deve lottare quasi ogni giorno contro le misure adottate dal premier nazionalista e illiberale Viktor Orbán, alleato di Donald Trump e Giorgia Meloni. Eletto nel giugno 2019 e attualmente al suo secondo mandato, durante il suo primo anno in carica, Karacsony ha promosso il “Patto delle città libere” con i sindaci delle capitali dei quattro Paesi del Gruppo di Visegrad, Bratislava, Praga e Varsavia, a cui poi in seguito si sono aggiunte anche Roma, Firenze, Milano, Parigi, Bruxelles, Berlino, Londra, Los Angeles e un’altra trentina di città in tutto il mondo per promuovere “i valori comuni di libertà, dignità umana, democrazia, uguaglianza, stato di diritto, giustizia sociale, tolleranza e diversità culturale”. Un esempio per il prossimo sindaco di New York, che con Trump alla Casa bianca si troverà probabilmente a lottare per difendere le prerogative della sua città, oltre che per mantenere le promesse fatte all’elettorato.
“Ha dimostrato ancora una volta il potere del municipalismo sociale, dell’inclusività, della solidarietà e della leadership a favore del popolo”, ha scritto dal carcere l’ex sindaco di Istanbul e principale oppositore del presidente turco Erdogan, Ekrem Imamoglu, uno che di lotta contro aspiranti dittatori ne sa qualcosa. “Non esiste forza che la volontà popolare e la sua ricerca della giustizia non possano sconfiggere. Una nuova politica è possibile. Saluti da Istanbul, con solidarietà e speranza!”.
Un augurio però che non si tradurrà nell’inizio di un nuovo movimento politico globale guidato dai sindaci, almeno non nel prossimo futuro. “Sapete c’è una copertina del New Yorker in cui il mondo finisce nel New Jersey”, ha confidato lo stesso Mamdani a Politico. “È così che cerco di pensare ai prossimi giorni. A mio avviso, quello che conta è riportare la nostra attenzione sui lavoratori, quella attenzione all’accessibilità economica che è dolorosamente mancata”.

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