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Il vaccino Pfizer protegge dalla variante sudafricana? Cosa sappiamo finora

Immagine di copertina
Vaccino Pfizer Credits: ANSA

La variante sudafricana “bucherebbe” il vaccino Pfizer-BioNTech. Ovvero riuscirebbe ad intaccare l’organismo anche dopo la somministrazione. È il risultato di un’indagine (non pubblicata perché si trova ancora nella fase di revisione della comunità scientifica) svolta in Israele, dove la prevalenza della mutazione del Coronavirus nelle persone vaccinate e positive sarebbe 8 volte superiore a quella riscontrata nella popolazione non vaccinata.

Sono state quasi 400 le persone esaminate dai ricercatori dell’università di Tel Aviv e dell’istituto Clalit e risultate positive dopo aver ricevuto almeno una dose di vaccino. Nel dettaglio la prevalenza della variante Sudafricana (B.1.351) tra i pazienti che avevano ricevuto due dosi di vaccino era circa otto volte superiore. Sebbene il numero di soggetti esaminati sia limitato – scrive anche il Corriere della Sera – il risultato è ritenuto indicativo.

Opzione terza dose

Il lavoro va maneggiato con cautela perché ancora in fase preliminare, ma bisogna comunque ricordare che la variante sudafricana, come quella brasiliana, contiene la mutazione E484K che conferisce al virus una capacità immunoevasiva, cioè può reinfettare anche persone che hanno già preso il Covid. Quindi verosimilmente con questa aggressività si tratta di varianti che possono sfuggire anche alla protezione dei vaccini. Per questo le aziende farmaceutiche stanno già lavorando per potenziare i vaccini, iniziando a prevedere una terza dose. 

A far rincuorare gli studiosi il sospetto “che la ridotta efficacia si verifichi solo in un piccolo lasso di tempo. Nessun caso di B.1.351 si è verificato dopo 14 giorni dalla seconda dose”. Gli esiti dimostrano infatti che la reinfezione avviene entro i 7 giorni dalla seconda dose.

I dati interni a Pfizer

Nulla di nuovo visto e considerato che i vaccini diventano pienamente efficaci all’incirca a partire da una settimana dopo la seconda dose (i dati possono poi variare leggermente da vaccino a vaccino). Non è poi escluso che ci si possa contagiare tra una dose e l’altra perché la carica anticorpale non è ancora al suo massimo livello. Più complessa invece la contrapposizione tra la nuova ricerca e lo studio condotto internamente dalla stessa società farmaceutica Pfizer. Quest’ultimo ha concluso come il vaccino mRNA mantenga una protezione di almeno sei mesi anche contro la variante sudafricana, l’esatto opposto di quanto sostenuto dagli israeliani.

Come funzionano le pubblicazioni scientifiche

Lo studio israeliano che si trova su Medrxiv è un esempio di lavoro scientifico che ancora deve passare la peer review. Ma qual è l’iter delle pubblicazioni che si vedono ogni giorno citate sui giornali? Gli autori di un’indagine, una volta conclusa la scrittura, la sottopongono alla comunità scientifica. Praticamente, un numero variante da 2 a 5 revisori (reviewers) deve vagliare la ricerca e certificarne le sue evidenze scientifiche. Si tratta di massimi esperti dell’argomento che chiedono chiarimenti e modifiche agli autori. Soltanto quando un lavoro passa questa fase, allora diventa una pubblicazione. A quel punto, più alto è l’impact factor della rivista (ovvero quante volte in un anno vengono mediamente citate le pubblicazioni da altre riviste), più in linea di massima sarà alta l’autorevolezza della fonte. Per avere un’idea, tutti i trial sui vaccini sono stati pubblicati dal New England Journal of Medicine, che ha un impact factor di 74.6. Invece, la ricerca a firma di Sara Gandini che invitava lo scorso dicembre a riaprire le scuole in quanto luoghi sicuri rispetto al contagio è stata pubblicata su Lancet Regional Health – Europe, che sì fa parte del gruppo Lancet, ma ha un impact factor pari a zero.

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