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Kemal Kilicdaroglu: l’anti-Erdogan che promette di riportare la democrazia in Turchia e rimpatriare i rifugiati

Immagine di copertina
Credit: AP

Alcuni lo paragonano a Gandhi, altri a Zelensky. Dall'aspetto sembra un ragioniere ma dopo un ventennio finora è stato l’unico a riuscire ad arginare il Sultano e a costringerlo a uno storico ballottaggio per le presidenziali, con la promessa di riportare la democrazia nel Paese. Proponendo anche però di rimandare a casa i profughi siriani. Ecco chi è lo sfidante che ha unito l'opposizione turca

Kemal Kilicdaroglu sembra proprio l’opposto di Recep Tayyip Erdogan. Un uomo dall’apparenza mite, di altezza e corporatura media, dotato di un’oratoria semplice, sempre con gli occhiali da vista e che, nonostante i soli cinque anni di differenza, appare ben più anziano del suo rivale. Insomma un uomo qualunque rispetto all’imponente figura del presidente turco, alto quasi due metri, con un passato da atleta dilettante e dalla retorica ampollosa, che ci tiene sempre ad apparire come l’uomo forte e dalle ambizioni smisurate.

S&D

Non che i propositi del candidato dell’opposizione, che al ballottaggio si prepara a mettere fine al ventennio del Sultano, nutra propositi meno grandiosi. «Quando assumerò il potere, arriverà la democrazia, il denaro affluirà nel Paese, il cambio si riprenderà e il vostro potere d’acquisto aumenterà», promise lo scorso aprile in un famoso video girato nella cucina di casa Kilicdaroglu, in cui il capo dell’opposizione turca si impegnava a fare i conti della spesa, come una persona qualsiasi.

Un contabile in marcia
La contabilità è d’altronde la sua materia, tanto che nel 1994 una rivista locale lo nominò “Burocrate dell’anno”. Nato 74 anni fa in una famiglia della minoranza religiosa alevita allora residente nel distretto di Nazimiye della provincia di Tunceli, nella Turchia orientale – che lui continua a chiamare “Dersim”, nome feudale della regione in epoca ottomana – è cresciuto in diverse città dell’Anatolia centro-orientale: Ercis, Tunceli, Genc ed Elazig, dove insieme alla madre Yemus Hanim e ai sei fratelli fu costretto a seguire il padre impiegato del catasto. Laureatosi all’Accademia di scienze economiche e commerciali di Ankara nel 1971, terminati gli studi intraprese la carriera amministrativa presso il ministero delle Finanze, dove nel 1983 divenne prima capo dipartimento e negli anni successivi vicedirettore della Direzione Generale delle Entrate. 

La sua carriera nell’amministrazione proseguì poi con l’approdo nel 1991 all’Istituto di previdenza per artigiani e lavoratori autonomi Bag-Kur, di cui divenne direttore generale l’anno successivo, per poi essere nominato per un breve periodo vice sottosegretario del ministero del Lavoro. Arrivato al vertice dell’Istituto di previdenza sociale pubblico Ssk (oggi Sgk, ndr), all’inizio del 1999 si dimise per intraprendere, con scarsi risultati, la carriera politica nel Partito Demokratik Sol (Sinistra democratica, ndr) guidato allora dal premier Bulent Ecevit.

Docente part-time all’Università di Hacettepe di Ankara, fu anche membro del consiglio di amministrazione dell’istituto di credito privato Isbank prima di passare al Partito Popolare Repubblicano (Chp), il più antico movimento politico del Paese fondato dal padre della patria Mustafa Kemal Ataturk e tra le cui fila fu eletto deputato per Istanbul nel 2002 guadagnandosi la reputazione di politico intransigente contro la corruzione. Sfruttando questa nomea, nel 2009 tentò di candidarsi a sindaco della megalopoli turca, senza successo. Ma l’anno successivo riuscì a conquistare la leadership del partito, succedendo al precedente segretario Deniz Baykal, costretto a dimettersi per uno scandalo sessuale.

Da allora guida il Chp, che ha allontanato sempre più dalle radici kemaliste per trasformarlo in un movimento socialdemocratico, senza dimenticare le istanze nazionaliste per raggiungere la base popolare del partito di Erdogan, l’Akp. Quest’approccio però non si è tradotto subito in voti, anche se gli ha guadagnato una grande popolarità personale sfruttata poi negli ultimi anni.

In particolare nel 2017, a un anno dal tentato golpe attribuito da Erdogan al suo ex alleato Fethullah Gulen e utilizzato come scusa per incarcerare gli oppositori e licenziare migliaia di dipendenti pubblici critici con il suo governo. Guadagnandosi un paragone con Gandhi, l’allora 68enne presidente del Partito Popolare Repubblicano, marciò a piedi percorrendo in 25 giorni i 420 chilometri tra Ankara e Istanbul per chiedere giustizia in nome di Enis Berberoglu, deputato del Chp e giornalista condannato a 25 anni di carcere (poi rilasciato nel 2018) per aver divulgato alcune immagini dei servizi segreti turchi che consegnavano armi ai ribelli siriani. L’iniziativa fu un successo e divenne la base su cui Kilicdaroglu riuscì a costruire non solo un consenso personale ma anche a riunire progressivamente l’opposizione.

Il primo test furono le elezioni amministrative del 2019, quando riuscì ad alleare il Chp con il partito di centrodestra Iyi, l’ultraconservatore Saadet e il principale movimento filo-curdo ancora legale nel Paese, Hdp. La coalizione fu un successo, riuscendo a strappare all’Akp di Erdogan le grandi città come Ankara, Smirne, Adana, Antalya e Istanbul, alla cui guida arrivò però un altro astro nascente della politica turca, il sindaco Ekrem Imamoglu, che in molti speravano potesse guidare l’opposizione alle elezioni del 14 maggio contro Erdogan. Una minaccia interna sventata ancora una volta da Kilicdaroglu grazie alle sue doti diplomatiche. Il suo nome infatti è sembrato l’unico in grado di riunire la cosiddetta “Tavola dei sei”, l’alleanza di movimenti di opposizione che ha sfidato il Sultano al primo turno, costringendolo a uno storico ballottaggio.

La politica della cipolla
Ci è riuscito anche grazie alla sua apparenza di normalità, sfruttata soprattutto sui social dove raccoglie oltre tre milioni di follower. Come il 9 aprile scorso quando è diventato virale un suo video girato nella cucina di casa, dove in maniche di camicia e con una cipolla in mano ha spiegato il suo programma di politica economica all’insegna dello slogan: «Ve lo prometto, la primavera tornerà». Forte dei suoi studi e della sua esperienza economica nell’amministrazione pubblica, Kilicdaroglu intende tornare a misure tradizionali e abbandonare la cosiddetta Erdoganomics. Negli ultimi anni del suo ventennio al potere, il presidente turco ha cercato di rendere l’economia più competitiva a livello internazionale, svalutando la lira e praticando politiche monetarie non ortodosse, aumentando così l’inflazione (cresciuta del 195 per cento dal 2013) e aggravando la crisi economica (il Pil è calato di oltre il 10 per cento in un decennio), peggiorata dalle conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina.

«È semplice», spiegò allora il capo dell’opposizione. «Oggi un chilo di cipolle costa 30 lire, se (Erdogan) resterà al potere arriverà a 100. Ma si tratta sempre e solo di cipolle». Può sembrare quasi uno scherzo ma la scelta di questo ortaggio non è stata casuale. Secondo i dati dell’Unione delle Camere agricole turche, nel 2022 tale prodotto ha subito il più elevato aumento dei prezzi nella categoria dei generi alimentari arrivando a un tasso annuo del 314,6 per cento, oltre sette volte il ritmo ufficiale dell’inflazione che, per l’Istituto statistico turco (Tuik), ad aprile era pari al 43,68 per cento. «Quello che hanno descritto come il loro “periodo di dominio” nelle ultime elezioni ha trascinato il nostro Paese al collasso in ogni campo», commentò nel filmato.

Un cedimento attribuito da alcuni esponenti della sua coalizione anche alle politiche migratorie di Erdogan, che hanno permesso al Sultano di sfruttare i rifugiati siriani per ricattare l’Europa e ottenere miliardi di euro di aiuti ma che hanno portato in patria oltre 3,6 milioni di stranieri, che ora Kilicdaroglu promette di rimpatriare. Pur assicurando di volerne soddisfare tutti i bisogni di sicurezza, a qualche giorno dal primo turno il candidato dell’opposizione ribadì che «tutti i siriani saranno deportati entro due anni», a differenza di Erdogan che invece ha continuato a puntare sul «rientro volontario» dei rifugiati in patria.

La posizione di Kilicdaroglu può sembrare in contrasto con la promessa di riportare in Turchia la democrazia, rilanciando le libertà civili. Ma dando uno sguardo alla sua coalizione si comprende bene il motivo di questa controversa proposta. Guida infatti una coalizione di partiti così eterogenea che in caso di vittoria, così ha promesso, governerà con ben sette vicepresidenti, compresi gli attuali sindaci di Istanbul, Ekrem Imamoglu, e Ankara, Mansur Yavas. A sostenerlo ci sono in primis i partiti della “Tavola dei sei”: il già citato movimento di centrodestra Iyi e gli ultraconservatori del Saadet, a cui si sono aggiunti gli europeisti moderati del Demokrat Parti e i fuoriusciti dall’Akp dell’ex ministro dell’Economia, Ali Babacan, leader del Partito per la Democrazia e il Progresso (Deva), e dell’ex premier Ahmet Davutoglu, che guida il Partito del Futuro (Gp). Al ballottaggio poi cercherà l’appoggio dell’ultrazionalista Sinan Ogan, che attribuisce agli immigrati tutti i problemi economici della Turchia. Con simili compagni di percorso non stupisce che, in termini di nazionalismo, la visione propugnata dall’alleanza guidata da Kilicdaroglu non sembri discostarsi troppo da quella di Erdogan, se non nell’approccio all’Occidente, a cui promette di riavvicinarsi. Tanto che qualcuno lo considera una specie di nuovo Zelensky.

Il nuovo Z?
Pur appoggiando (e armando) l’Ucraina e restando un saldo alleato della Nato, nell’ultimo decennio il Sultano si è progressivamente avvicinato alla Russia e all’Iran, con cui ha messo in piedi un dialogo ad alto livello per risolvere il conflitto in Siria (appoggiandone il ritorno in seno alla Lega araba), senza sostenere le politiche statunitensi di contenimento della Cina.

Al contrario, Kilicdaroglu ha più volte promesso che, oltre a sconfiggere la corruzione, perseguirà una politica estera di riavvicinamento all’Unione europea, agli Stati Uniti e alla Nato, proprio come il presidente ucraino a Kiev. Non solo, il candidato dell’opposizione ha anche annunciato, in caso di vittoria, il ripristino delle relazioni con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Tutte politiche promosse dai suoi due alleati ex Akp, Babacan e Davutoglu, che per anni hanno servito come ministri dell’Economia e degli Esteri (e premier) sotto Erdogan, promuovendone le fallimentari misure che hanno provocato la crisi economica e le tensioni internazionali con alleati e vicini, e per cui è molto criticato dalle formazioni più a sinistra del Chp.

I punti deboli della sua formazione però non si limitano solo ai discutibili compagni di percorso. Malgrado la sua fama di politico onesto e intransigente, anche il suo partito deve ancora fare i conti con episodi di corruzione legati soprattutto ai comuni amministrati e che gli hanno alienato il voto di molti giovani disillusi, la cui richiesta è di un vero cambiamento. Chissà se Kilicdaroglu riuscirà a incarnarlo.

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