Perché Netanyahu è un nemico utile

Si era attirato critiche da tutto il mondo per i massacri nella Striscia di Gaza. Ma ora sta portando avanti contro l’Iran una guerra che fa comodo a molti. Anche tra gli alleati di Teheran
Era dai tempi della guerra al terrorismo di bushiana memoria che si sentiva parlare di un attacco contro l’Iran e del rischio che Teheran riuscisse a ottenere l’atomica.
Anno dopo anno, in forma diversa, adeguandosi al cambio dei modi e dei tempi della guerra, le indiscrezioni di uno scontro tornavano, con picchi di tensione anche notevoli, ma la guerra sembrava quasi il deterrente che nessuno voleva davvero. Sembrava che la questione del nucleare iraniano si sarebbe in qualche modo risolta senza permettere che Teheran avesse l’atomica.
Tuttavia, alla lunga, lo scontro diretto e su ampia scala tra Israele e Iran, con tanto di coinvolgimento attivo degli Stati Uniti, è arrivato davvero, e guardando alle reazioni non solo del mondo occidentale, ma anche di alleati storici degli ayatollah, sembra quasi che la cosa sia stata accolta con l’atteggiamento con cui si accoglie qualcosa di inevitabile. Perché, da Oriente a Occidente, probabilmente una convinzione più o meno taciuta c’era: l’Iran non poteva avere l’atomica. E, mentre i dialoghi non sembravano portare da nessuna parte, dopo che l’accordo di Obama è finito nel cestino, qualcuno ha finito per fare il lavoro sporco, tra tutti i rischi e le incognite del caso.
Scontro diretto
Israele e Iran per decenni sono stati impegnati in una guerra per procura. Nessuno scontro diretto tra i due Paesi, ma un conflitto asimmetrico affiancato da attacchi ibridi che Teheran ha portato avanti soprattutto delegando l’azione ai gruppi di miliziani suoi alleati nella regione – il cosiddetto “Asse della Resistenza” – e Israele con operazioni di sabotaggio al programma nucleare, con cyberattacchi e uccisioni mirate di tecnici e scienziati iraniani che spesso gli osservatori hanno attribuito a operazioni oltre le linee compiute da uomini dello stato ebraico. Uno scontro fatto di colpi assestati nella penombra e attraverso alleati regionali, fino al momento in cui è arrivata la definitiva destabilizzazione del già fragile scenario mediorientale con gli attacchi del 7 ottobre 2023 compiuti da Hamas, che hanno scatenato la durissima reazione israeliana a Gaza e in tutto il Medio Oriente.
Proprio in questo strascico successivo al 7 ottobre, sono arrivati i primi, due, scontri diretti tra Israele e Iran: il primo, nell’aprile del 2024, quando Teheran ha risposto all’attacco israeliano contro un edificio nel complesso dell’ambasciata iraniana a Damasco lanciando una pioggia di missili sullo Stato ebraico, che ha a sua volta risposto con un raid simbolico contro obiettivi minori a Isfahan, sede di importanti strutture del programma nucleare.
Un secondo attacco in tutto e per tutto simile è stato poi portato avanti da Teheran all’inizio dello scorso ottobre, come risposta all’uccisione del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh e di quello del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, trovando una replica decisamente meno simbolica da parte di Israele che ha colpito numerosi obiettivi militari in diverse località dell’Iran.
La tensione si è fatta sempre più alta e ha spostato il livello di uno scontro che, fino al 2024, per quanto feroce, sembrava muoversi in un ambito ibrido e per procura. Così si sono poste le basi per ciò cui stiamo assistendo adesso.
A chi conviene
Non ha molto senso metterci oggi a dire se l’attacco israeliano contro obiettivi iraniani dello scorso 13 giugno fosse o meno inevitabile, certo è che gli elementi per non ritenerlo un fulmine a ciel sereno c’erano tutti, con la tensione tra i due Paesi sempre più palpabile.
Parallelamente a questo, le preoccupazioni per lo sviluppo di un’arma atomica da parte dell’Iran si facevano più presenti, mentre il tentativo del presidente degli Stati Uniti per trovare un accordo a riguardo con Teheran proseguivano senza mostrare passi concreti.
In anni di programma nucleare iraniano, spesso avevamo assistito ad allarmi e tentativi di trattative con risultati più o meno positivi (Obama arrivò a siglare un accordo ad hoc, poi stracciato da Trump), ma questa volta la situazione sembrava più tesa non solo per il generale contesto di tensione, ma anche per l’allarme arrivato proprio il 12 giugno, poche ore prima degli attacchi, dall’Aiea (l’agenzia Onu per l’Energia nucleare) che per la prima volta in vent’anni accusava ufficialmente Teheran di mancato rispetto dei suoi obblighi, pur affermando nei giorni successivi di non avere prove determinanti su uno sviluppo di armi atomiche.
Se da più parti, non solo nel mondo occidentale, c’era l’interesse che l’Iran non sviluppasse armi nucleari – se non la consapevolezza che non avrebbe mai potuto ottenere tali armi – sembrava al tempo stesso che nessuno avesse le carte per convincere gli ayatollah con le buone a mettere da parte la loro ambizione e che nessuno avesse il pelo sullo stomaco di farlo con le cattive.
Non è un caso che, alla fine, a mettere in campo l’azione militare sia stato proprio chi da quel programma nucleare si sente più minacciato, ovvero Israele.
Da tempo Netanyahu denuncia i rischi del programma di Teheran, così come da tempo Israele denuncia il rischio che l’Iran sviluppi armi di distruzione di massa, tanto più da quando il regime degli ayatollah ha fatto della distruzione dello Stato ebraico un forte elemento di propaganda interna: elementi che alla Knesset sono visti come una minaccia esistenziale per il proprio Paese.
Se l’attacco israeliano è arrivato in un momento di massima pressione nei confronti di Netanyahu per via della guerra a Gaza che va avanti da oltre un anno e mezzo (un tempo più che lungo per un Paese che ha sconfitto tre eserciti in “sei giorni” nella guerra che porta questo nome) e che ha causato decine di migliaia di vittime, con governi occidentali che sono arrivati a proporre apertamente revisioni dei rapporti con Israele e sfiorato addirittura l’argomento sanzioni, l’atteggiamento dell’intero Occidente verso Netanyahu subito dopo l’attacco contro l’Iran lascia pensare che stesse facendo qualcosa che in tanti avrebbero voluto vedere ma nessuno aveva il coraggio di fare, almeno in prima persona. Il «lavoro sporco», come ha detto apertamente non un estroso blogger o un editorialista dalla penna senza freni, ma il cancelliere tedesco Friedrich Merz.
E così tutti i distinguo e le prese di distanza da Netanyahu sono di punto in bianco sparite e l’Occidente si è stretto intorno a Israele, alla sua operazione e alle sue motivazioni.
Ancora di più hanno fatto gli Stati Uniti, nonostante la linea «America First» più volte ribadita da Trump in campagna elettorale: dichiarazioni entusiaste e, dopo i primi successi operativi iraniani, contributo diretto con bombe anti-bunker per distruggere i maggiori siti nucleari iraniani, pur esponendosi a potenziali rappresaglie e alle incognite sul proseguimento dello sconto armato.
Ma anche guardando le reazioni dei Paesi storicamente vicini a Teheran, come la Russia o la Cina, sembra che ci fosse una convinzione condivisa che l’Iran non potesse sviluppare armi nucleari: oltre a generiche condanne dell’azione, non vi è stata alcuna adozione di misure volte a difendere lo Stato amico o a opporsi in modo attivo, anche indiretto, all’attacco.
Se l’amicizia tra Russia e Iran è un dato di fatto che abbiamo visto consolidarsi con la fornitura di droni Shahed per sostenere Mosca nella guerra in Ucraina e quella tra Cina e Iran si è recentemente manifestata con la realizzazione di una ferrovia tra i due Paesi che permette di evitare rotte navali più lunghe, non è detto che questi due Stati siano entusiasti di vedere il loro amico iraniano sviluppare l’arma atomica, con un regime degli ayatollah che nei suoi oltre quarant’anni di vita generalmente solida ha comunque affrontato numerose ondate di protesta – l’ultima quella successiva alla morte di Mahsa Amini – che forse suggeriscono cautela.
Incognita “regime change”
Ma è proprio riguardo potenziali proteste che emerge uno dei più grandi interrogativi di questa guerra, ovvero l’ipotesi di un “regime change”: fino a che punto le potenze mondiali e regionali possono accettare che si spinga il “lavoro sporco” di Israele?
Se Netanyahu ha parlato apertamente di questa possibilità, non è detto che la fine del regime degli ayatollah sia il suo principale obiettivo: dai discorsi dei vertici israeliani emerge spesso che gli obiettivi siano quello di privare Teheran del suo programma nucleare e dei suoi missili balistici, oltre che di sostenere i suoi alleati nella regione come gli Houthi in Yemen ed Hezbollah in Libano. Forse, potrebbe accontentarsi di questo, ma il tema del cambio di regime in Iran è stato toccato più volte, ma non senza incognite.
Perché un regime venga sostituito, intanto deve essere abbattuto, cosa che al momento non è successa pur con tutte le difficoltà degli ayatollah, e serve averne pronto uno nuovo che goda di un forte consenso popolare, cosa che allo stato attuale del conflitto non si è vista. Il tutto in un Paese grande e complesso, su cui nessuno vuole impegnarsi in una guerra boots on the ground che preveda l’invio di migliaia di soldati in un territorio di dimensioni e conformazione morfologica molto articolati.
Senza però fare speculazioni sul dopo, è importante sottolineare come questa guerra arrivi sulla scia di un ordine internazionale totalmente in crisi già da molto tempo ma che con l’inizio della guerra in Ucraina nel 2022 ha visto un ulteriore logoramento della situazione. Non è un caso che dopo tale episodio, molti Paesi abbiano risolto con le armi alcune questioni che erano congelate (si pensi al Nagorno-Karbakh) o abbiano intrapreso politiche di riarmo, consapevoli del rischio che il logoramento dell’ordine mondiale portasse a un notevole indebolimento degli strumenti della diplomazia. Su quella scia, il Medio Oriente ha avuto un’esplosione ulteriore il 7 ottobre 2023: da quel momento si sono innescate numerose micce che dal crollo del regime di Assad in Siria all’attacco israeliano all’Iran sono più concatenate che mai. E non sappiamo fino a quale punto potranno condurci.