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Atlantisti per natura: così la Lituania guida la riscossa dei Baltici (e della Nato) contro la Russia e la Cina

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Ha solo 2,8 milioni di abitanti. Ma è il quinto maggior contributore Nato in base al Pil. È tra i più strenui sostenitori di Kiev. Ed è in prima linea contro l’espansionismo di Mosca. Negli ultimi anni però, Vilnius è arrivata persino a sfidare la Cina su Taiwan

Piazza Lukiškės e il Grande Cortile dell’Università di Vilnius si trovano nel centro della capitale lituana e distano meno di due chilometri l’una dall’altro. Entrambe le piazze hanno fatto da sfondo al vertice Nato 2023 e, a loro modo, hanno presentato al mondo la Lituania.

La prima ha accolto l’11 luglio il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, salutato da un bagno di folla con bandiere ucraine e lituane. La seconda invece, il giorno successivo, ha ospitato Joe Biden, in un evento molto più composto e con meno persone presenti, per lo più sedute su appositi spalti, che si sono sorbite anche quattro ore di fila per poter ascoltare venti minuti di discorso del capo della Casa bianca. Basta guardare le immagini delle due manifestazioni per rendersi conto per chi batte davvero il cuore della città. 

Un Paese “coraggioso”
Non che Vilnius non si senta legata a Washington, ma l’atmosfera calorosa riservata a Zelensky, le migliaia di bandiere ucraine e gli slogan pro-Kiev che tappezzavano la capitale rappresentano un’ulteriore conferma della volontà della piccola nazione di poco più di 2,8 milioni di abitanti di sostenere – con coraggio – l’Ucraina. Ed è così che la Lituania si sente: come recitava un vecchio slogan lanciato nel 2008, un “Paese coraggioso”, soprattutto perché coperto alle spalle da Usa e Nato. Ed è difficile darle torto, dopo la reazione alla crisi migratoria scatenata dalla Bielorussia, alle pressioni economiche subite dalla Cina e alle conseguenze dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

Ormai tre anni fa, dopo la sua fuga dal regime di Alexander Lukashenko, Vilnius accolse la leader dell’opposizione bielorussa Svetlana Tsikhanouskaya, che proprio in città instaurò il suo governo in esilio. Per tutta risposta, l’anno successivo, Minsk scatenò una crisi migratoria artefatta e senza precedenti, concedendo visti turistici a migliaia di persone provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente e consentendo poi loro il passaggio verso i confini lituani, polacchi e lettoni. Nello stesso anno, la Lituania si impelagò in una disputa con la Cina per il diritto ad avere rapporti diretti con Taiwan, costata da allora alle sue aziende centinaia di milioni di euro per le ritorsioni di Pechino. Malgrado tutto, Vilnius non si è tirata indietro nemmeno lo scorso anno, accogliendo migliaia di rifugiati ucraini e raccogliendo fondi per sostenere Kiev.

Non solo: il Paese è stato tra i primi a chiudere lo spazio aereo alla Russia, ha promosso le più dure sanzioni contro gas e petrolio del Cremlino, ha chiesto all’Onu una no-fly zone sull’Ucraina, definendo poi la guerra “un genocidio” e la Russia uno “Stato terrorista”. Quindi ha espulso l’ambasciatore russo e ritirato i propri diplomatici da Mosca, chiudendo i confini ai cittadini russi. Lo scorso anno ha poi provato a bloccare il transito di merci russe verso l’exclave di Kaliningrad, dovendo poi cedere alle pressioni dell’Unione europea. In seguito però è rimasta l’unico Stato membro a promuovere un immediato ingresso dell’Ucraina nella Nato, scontrandosi con la contrarietà degli Usa e degli altri alleati.

Minoranze contro
La sua capitale d’altronde ospita ogni anno il Free Russia Forum, a cui hanno partecipato tanti oppositori di Vladimir Putin tra cui Garry Kasparov, Vladimir Kara-Murza e Mikhaïl Khodorkovski. Il “Teatro Russo di Vilnius” è stato ribattezzato “Teatro Vecchio” e l’Opera ha sospeso le rappresentazioni di spettacoli russi.

Il Paese baltico conta infatti una folta minoranza russofona, seconda solo a un’altra di lingua polacca. Come risultato dell’appartenenza all’Urss, secondo il censimento del 2021, il 6,5 per cento della popolazione lituana è di lingua madre polacca e il 5 per cento russa, a cui si aggiunge un 1 per cento di bielorussi e uno 0,5 per cento di ucraini.

La guerra voluta da Putin ha provocato reazioni al limite dell’immaginabile: dall’indipendenza nel 1990, entrambe le lingue possono essere insegnate nelle scuole ma, nel febbraio scorso, la premier Ingrida Šimonytė si è detta favorevole a sostituire il russo con il polacco come seconda lingua straniera nella didattica, provocando le ire di Mosca.

Armati fino ai denti
Ma l’impegno maggiore di Vilnius contro la Russia è di tipo economico: lo Stato baltico è infatti uno dei Paesi che contribuisce di più allo sforzo bellico di Kiev. Secondo i dati del Kiel Institute for the World Economy (IfW), nel primo di anno di guerra, la Lituania ha stanziato lo 0,93 per cento del Prodotto interno lordo per aiutare l’Ucraina. Quasi il 13 per cento del bilancio nazionale della difesa, pari a 200 milioni di euro, è stato speso per sostenere Kiev e l’impegno è stato talmente gravoso che, nell’ottobre scorso, lo Stato maggiore delle forze armate lituane ha chiesto al governo locale di smetterla di inviare armi a Zelensky, altrimenti il Paese non sarebbe stato più difendibile.

Non che Vilnius non investa nella propria difesa, anzi. La Lituania risulta il quinto maggior contributore della Nato in proporzione al Pil, dopo Polonia, Stati Uniti, Grecia ed Estonia. Secondo gli ultimi dati pubblicati il 7 luglio scorso dall’Alleanza, Vilnius spende infatti il 2,54 per cento del proprio Prodotto interno lordo per la difesa ed è uno degli 11 (su 31) Stati membri a rispettare l’impegno assunto nel 2014 di destinare il 2 per cento del Pil alle spese militari.

In termini assoluti, in meno di dieci anni, la spesa militare di Vilnius è cresciuta di quasi l’82,8 per cento: passando dai 322 milioni di euro stanziati nel 2014 agli 1,872 miliardi previsti per il 2023. Un aumento favorito sia dalle crescenti sfide poste dalla Russia alla sicurezza dell’Est Europa, a partire dall’annessione illegale della Crimea fino all’invasione dell’intera Ucraina, sia dal quadro legislativo locale.

Già agli inizi degli anni 2000 infatti, il Parlamento lituano approvò una legge che obbligava il Governo a destinare almeno il 2 per cento del Pil alle spese militari. Una previsione che ben si accorda con le nuove direttive emerse dall’ultimo summit di Vilnius, in cui gli alleati hanno deciso non solo di trasformare l’obiettivo del 2 per cento in una sorta di soglia minima di spesa ma anche di investire non meno del 20 per cento di questo budget in nuovi armamenti e in ricerca e sviluppo. Un traguardo già ampiamente raggiunto dalla Lituania che, secondo l’Alleanza, spende già il 24,6 per cento del proprio bilancio militare in questo settore.

Il confine più pericoloso
Al di là dell’accorato sostegno a Kiev – secondo un recente sondaggio l’84 per cento dei lituani è favorevole ad aiutare l’Ucraina – la Lituania è infatti impegnata in primis a difendere se stessa dalla Russia, considerata da molti politici locali una minaccia esistenziale. «Finché esiste la Russia, non ci sarà mai un “dopo-guerra”», ha spiegato la scorsa settimana in conferenza stampa Vytautas Landsbergis, il primo leader a guidare lo Stato baltico dopo l’indipendenza nei primi anni Novanta. «Diciamolo con franchezza: “dopo la Russia”. Forse allora il mondo potrà avere una possibilità». Una posizione estrema, non condivisa dai principali alleati della Nato, ma significativa del clima che vive il Paese baltico, che si trova letteralmente al confine tra l’Alleanza e la Russia.

I 104 chilometri di confine con la Polonia infatti, noti come “corridoio di Suwalki”, dividono il Paese dall’exclave russa di Kaliningrad a ovest e dalla Bielorussia a est. Qui, in poche migliaia di chilometri, si concentrano la flotta russa del Baltico, migliaia di militari e decine di missili Iskander con capacità nucleari. Non a caso, la Lituania ospita circa 4.000 truppe stanziate dalla Nato nel Paese sotto comando tedesco, a cui Vilnius affianca una strategia di “difesa totale”. Secondo l’ultima versione della “Strategia militare della Repubblica”, un documento pubblicato dal ministero lituano della Difesa, oltre alle forze armate e alla Nato, anche «i cittadini difendono lo Stato con le armi e partecipano alla resistenza civile disarmata».

Per questo Vilnius investe sulla mobilitazione e sulla «volontà, resilienza e prontezza» della popolazione. «I cittadini che desiderano contribuire alla difesa di uno Stato armato hanno accesso a un’ampia gamma di opportunità di addestramento militare», si legge sul sito-web del ministero. «Allo stesso tempo, si sta sviluppando una conoscenza generale su come affrontare la mobilitazione e la guerra e si stanno introducendo metodi e possibilità di resistenza civile disarmata. Si sta inoltre rafforzando il ruolo dell’Unione dei fucilieri lituani e delle organizzazioni non governative nella preparazione della resistenza civile». Insomma, una società che si sente assediata ma anche pronta a resistere, capace di sfidare, forte delle sue alleanze, giganti globali come la Russia e persino la Cina.

Sfida aperta a Pechino
Tutto cominciò nell’agosto 2021 e per una sola parola. Allora, Vilnius autorizzò l’apertura di un ufficio di rappresentanza “taiwanese” in Lituania, scatenando l’ira della Cina: da sempre Pechino preferisce la notazione “di Taipei”, considerando l’isola una provincia ribelle. La mossa fu vista allora come un primo passo verso il riconoscimento dell’indipendenza di Taiwan e negli anni ha provocato una vera escalation, malgrado le rassicurazioni lituane sull’adesione di Vilnius alla politica di “una sola Cina”.

Da allora però lo Stato baltico si è ritirato dall’iniziativa di cooperazione tra Pechino e i Paesi dell’Europa centrale e orientale mentre il colosso asiatico ha attuato una serie di ritorsioni economiche contro il Paese ex sovietico, che poco prima dell’ultimo summit Nato ha addirittura emanato una sua “Strategia per l’Indo-Pacifico” contenente un linguaggio insolitamente duro (per un membro dell’Ue) contro la prima economia mondiale.

Qui la Cina è definita una «potenza economica e militare globale che ha consolidato metodi di controllo autocratico sempre più intensi a livello nazionale e sta esercitando una politica internazionale sempre più aggressiva, volta a proiettare la propria potenza all’estero». Un vero e proprio attacco, arrivato dopo anni di aspri confronti.

Nel 2021, dopo le proteste cinesi per l’apertura dell’ufficio “taiwanese”, Vilnius decise di aprire una propria rappresentanza a Taipei. Dopodiché Pechino richiamò il proprio ambasciatore in Lituania, declassando le relazioni bilaterali a livello di incaricato d’affari e inaugurò una stagione di “coercizione economica”, impedendo o complicando l’accesso al mercato cinese a una sessantina di esportatori lituani, bloccando una serie linee di credito commerciali e smettendo di acquistare legname e grano dal Paese baltico.

Tanto che nel dicembre scorso l’Unione europea è stata costretta a intervenire, appellandosi all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Tutte pressioni che, stando alla nuova strategia lituana, si sono rivelate «infruttuose» e che mostrano come «un Paese può resistere al ricatto economico (…) se ha partner affidabili». Tra questi, Vilnius non vuole assolutamente rinunciare a Taipei, leader mondiale nel settore dei semiconduttori: «Lo sviluppo delle relazioni economiche con Taiwan è una delle priorità strategiche della Lituania e parte della sua politica di diversificazione economica».

Ma non finisce qui. Il documento arriva persino a minacciare Pechino in caso di sostegno militare alla Russia contro l’Ucraina o di ricorso alla forza contro Taiwan, due «linee rosse» che – se violate – «solleciterebbero una risposta legittima da parte di quei Paesi che ancora credono nella conservazione dell’ordine internazionale». Tradotto: Usa e Nato.

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