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Home » Esteri

“Vi raccontiamo la nostra architettura della resistenza a Nazareth contro l’occupazione di Israele”

Immagine di copertina
L'architetto palestinese Razan Zoubi e il marito Daher Zeidani a Nazareth. Credit: Studio Mozayan

Nella Città Vecchia,
l’urbanista palestinese Razan Zoubi e il marito e
ricercatore Daher Zeidani ricostruiscono, pietra
su pietra, le case e la memoria di un popolo.
“Sfidiamo l’occupazione, riappropriandoci di ciò
che è destinato a scomparire”, spiegano a TPI

All’ingresso dell’ex carcere di San Vito, ad Agrigento, campeggiano tre mappe e una linea temporale, che ripercorrono gli ultimi 100 anni di storia in Medio Oriente. «Riassumono come Nazareth fosse parte della Palestina e com’era e come si presenta oggi il nostro Paese», spiegano a TPI l’architetto e urbanista Razan Zoubi e suo marito Daher Zeidani, che insieme hanno curato una mostra immersiva all’interno di uno dei tre padiglioni di “Countless Cities – La Biennale delle Città del Mondo” dedicato al più grande centro urbano palestinese rimasto all’interno dei confini di Israele dopo la guerra del 1948 e la Nakba, l’espulsione della popolazione araba dallo Stato ebraico.

 

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Costruito nel 1432 come monastero, trasformato poi in una prigione dopo l’Unità d’Italia, abbandonato dallo Stato a fine anni Ottanta e infine inserito nei luoghi de cuore del FAI (*), grazie alla collaborazione tra il centro indipendente Farm Cultural Park di Favara e l’Agenzia del Demanio, l’ex carcere è tornato uno spazio di libertà, arte e diritti nell’ambito degli eventi previsti nel capoluogo provinciale siciliano, Capitale Italiana della Cultura 2025. Qui il Padiglione di Nazareth ricostruisce, attraverso fotografie, installazioni sonore e materiali di recupero, un’architettura della resistenza.

La testimonianza di un popolo
Mettendo in crisi il binomio tra presenza e assenza, Razan e Daher raccontano il “potere dell’invisibilità”. A Nazareth, ci spiegano, l’assenza è una forma di sopravvivenza e l’invisibilità è uno scudo contro l’appropriazione da parte dei coloni. «Il titolo è: “Non lascerò mai la mia casa vivo” ed è ispirato alle nostre famiglie e alla comunità locale, non solo a Nazareth, ma in tutta la Palestina», ci spiega Razan Zoubi, figlia di un sopravvissuto alla Nakba e fondatrice dello studio Mozayan. «I sopravvissuti alla Nakba erano già attaccati alle proprie case ma dopo queste sono diventate uno strumento di resistenza. Il regime coloniale israeliano inizia demolendo, cancellando e distruggendo tutte le abitazioni dei palestinesi in modo che i profughi non possano più tornare. Le case sono la nostra memoria, l’ultima testimonianza dell’esistenza del popolo palestinese».

Nazareth storica
Foto storica di Nazareth prima dell’occupazione israeliana. Credit: Studio Mozayan

Non a caso la mostra esplora il tessuto lacerato di Al-Souk, il vecchio mercato dell’antica città. Tra foto, video e installazioni sonore, tenta di far rivivere il cuore di Nazareth, che per molti è stato ucciso quando la sua gente è stata costretta a lasciare le proprie case. «Il progetto sionista è iniziato qualche anno dopo la Nakba del 1948», ricorda il marito Daher, ricercatore culturale e discendente di settima generazione di Daher Al Omar Al Zeidani, l’ultimo governatore arabo che cercò di costruire uno Stato sovrano in Palestina. «Negli anni Cinquanta fondarono un insediamento proprio accanto a Nazareth (nato come “quartiere ebraico”, conosciuto prima come Kiryat Natzeret e poi come Nazareth Illit, dal 2019 è stato ribattezzato Nof HaGalil, ndr). Il suo scopo era quello di svuotare la città, che all’epoca ospitava i principali servizi commerciali, amministrativi, sanitari e accademici della regione. E ci sono riusciti, perché ormai il centro di Nazareth è morto: la Città Vecchia è per lo più abbandonata, la maggior parte dei negozi, tante case e persino due piccole chiese sono vuoti».

Il “potere dell’invisibilità”
Ma l’architettura, per la coppia, è inestricabilmente legata alla politica. La scelta di Daher di eliminare ogni simbolo occidentale dall’Al Reda Café, restaurato nello stesso palazzo dove vivevano i suoi antenati, è più che un gesto estetico: è una sfida. Rifiutare l’imposizione del gusto coloniale significa riappropriarsi del proprio sguardo, prima che scompaia per sempre. Qui infatti, ci spiega il ricercatore palestinese, le case crollano, gli edifici vengono abbandonati ma le autorità israeliane non intervengono. «In assenza di una tutela del patrimonio storico locale, molti palazzi sono stati costruiti sulle case della Città Vecchia con materiali nuovi, senza alcun criterio né armonia con il passato, e il panorama ora appare caotico», ci ricorda Daher.

Mozayan Nazareth
Una vista del centro di Nazareth con costruzioni in cemento armato nella Città Vecchia. Credit: Studio Mozayan

«È il risultato di tutta la violenza che abbiamo assorbito dall’occupazione (israeliana, ndr)», ci spiega la moglie Razan. «Usiamo materiali economici e trattiamo il nostro patrimonio storico e culturale in maniera brutale: questo ha creato una stratificazione della città». Se in altri contesti però, sottolinea l’urbanista, bisogna scavare sottoterra per intercettare le antiche vestigia dei luoghi, a Nazareth è tutto ancora alla luce del sole, anche se nascosto alla vista. «Le nuove costruzioni rendono questo patrimonio invisibile e lo fanno scomparire», afferma Razan. «Questa invisibilità però ci rende anche immuni dalla sorveglianza e dall’avidità degli investitori israeliani». Sembra paradossale ma, come rimarca scherzando Daher, oggi è la «bruttezza» a tutelare l’identità dei luoghi a Nazareth. «Proteggiamo la nostra estetica, il nostro patrimonio storico e il nostro tesoro culturale attraverso il disordine e il caos delle nuove costruzioni», conferma Razan. «Così ci stiamo riappropriando di ciò che era destinato a scomparire e lo usiamo per proteggerci».

“Battaglia per la memoria”
Questa situazione, sottolinea Daher, «non li incoraggia (i coloni, ndr) a vivere qui con noi». «Conosciamo il loro potere di controllare le nostre vite e di fare ciò che vogliono», aggiunge il ricercatore palestinese. «Hanno occupato la nostra terra, ci hanno sradicati dalle nostre case e sfollati con la forza», ricorda l’urbanista Razan. «Non credono ci sia spazio per due popoli e vogliono completare la pulizia etnica e cancellare tutti i palestinesi per potersi impadronire di ciò che non hanno conquistato nel 1948. Non si fermeranno finché l’ultimo palestinese sarà sopravvissuto». Per la coppia si tratta in effetti di una questione di sopravvivenza, non solo fisica ma anche culturale. «C’è una frase che usano spesso da queste parti quando parlano di sfrattare i palestinesi: “I vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno”, dicono», ci spiega Razan. «È una battaglia per la memoria e noi resistiamo per non dimenticare. Se lo faremo, accetteremo di essere cancellati e di diventare schiavi di questo sistema egemonico». Qualcuno però ha già cominciato.
«Usano molti modi per smantellare la nostra società», denuncia Daher. «L’appoggio alle organizzazioni criminali, come hanno iniziato a fare anche a Gaza, è uno di questi. Non fanno alcuno sforzo per fermarli. E questo ovviamente rende la vita molto, molto difficile per la popolazione, che ha paura per i propri figli e le rispettive proprietà». Così, ci conferma la coppia, molti «sono incoraggiati a emigrare alla ricerca di luoghi più sicuri, con maggiori possibilità di lavoro e capaci di offrire una migliore qualità della vita».
Un altro strumento di controllo però è proprio la cultura e l’istruzione. «Gli architetti palestinesi, laureati presso istituzioni accademiche in Israele, non sono molto diversi dai loro colleghi israeliani», ricorda Daher. «Sono così immersi nel sistema che non sono preparati e non hanno né le conoscenze né la volontà per occuparsi della tutela del patrimonio architettonico locale». «Così diventano complici inconsapevoli della cancellazione della nostra identità», aggiunge Razan.

“Resistenza spaziale”
Per questo, con il loro progetto Aldar (che significa “casa”), Razan e Daher hanno voluto sensibilizzare la comunità locale sull’importanza di tutelare il patrimonio storico e culturale a Nazareth. Ma, nell’intenzione della coppia, questo progetto, iniziato l’anno scorso, va ben oltre il restauro e il recupero di un’antica casa della Città Vecchia, trasformata in uno «spazio per pratiche artistiche basate sulla ricerca, situato tra arte, cultura e architettura», volto alla «decolonizzazione intellettuale attraverso la conservazione del patrimonio e la creatività». L’obiettivo, ci spiegano, è «preservare, recuperare e vivere» queste abitazioni iconiche, «essere fisicamente presenti al loro interno». «Per leggere un libro, è necessario conoscere la lingua in cui è scritto, ma noi non conosciamo la lingua dell’architettura di Nazareth, quindi non possiamo leggerla perché ne siamo stati tanto distaccati che l’abbiamo persa. Abbiamo perso il contatto con il nostro passato e con le nostre conoscenze locali», ci spiega Razan. «Per nessuna abitazione esiste un archivio documentale. Ecco perché, in primis, stiamo cercando di fare ricerche sulla documentazione architettonica, almeno per capire queste case, trovare il modo di preservarle e stabilire delle regole per proteggerle. Qualcosa che non è mai stato fatto».
Il tutto in piena autonomia. «Non è facile trovare finanziamenti perché non ci siamo voluti registrare come una ong per non ricadere sotto l’autorità israeliana», ci ricorda Razan. «Questo significa che non possiamo fare nulla per le molte case fatiscenti o parzialmente demolite che potremmo proteggere. Ma la nostra missione, prima di tutto, è sensibilizzare la popolazione». L’architetto si impegna infatti anche in tour a piedi nella Città Vecchia perché la sua lotta è soprattutto culturale e non si limita alla tutela dei beni tangibili. «Dobbiamo rileggere, ripensare e re-immaginare la nostra architettura palestinese, ma prima dobbiamo comprenderla ed essere presenti qui, circondati da essa, perché dalla nostra esperienza, nel momento in cui ci si trova in questo luogo abbandonato, se ne assorbe la storia, i frammenti, i suoni, gli odori», ci racconta l’urbanista. «La chiamiamo “resistenza spaziale”. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo avviato un progetto di ricerca artistica chiamato “Viaggio di recupero sonoro”. Abbiamo cercato di comprendere l’architettura e il modo in cui il tessuto urbano si è evoluto e plasmato attraverso i suoni delle persone, delle componenti rurali, degli asini di passaggio, o anche attraverso l’artigianato». Al-Souk, il vecchio mercato, ci ricorda il marito Daher, «era il luogo centrale dell’artigianato di Nazareth». «Oggi però non si vedono più artigiani. È rimasto solo qualche falegname, forse tre o quattro su una quarantina censiti qualche anno fa», ci spiega il ricercatore. «In fondo siamo la città di (San, ndr) Giuseppe», scherza il marito. «Per questo cerchiamo di capire e raccontare la storia della nostra città anche attraverso i suoi suoni perduti, e di recuperarli», aggiunge la moglie Razan. «Questo ha permesso a tante persone di conoscere Nazareth da una prospettiva diversa».

Porte sul futuro
Il problema più urgente però, ci spiega la coppia, sono gli edifici storici fatiscenti. «Viviamo circondati da rovine», ricorda Razan. «Sono ovunque e sono anche aperte al pubblico. Chiunque può entrare in qualsiasi casa abbandonata e distruggerla ulteriormente». Perciò, nell’estate dell’anno scorso, i due hanno lanciato un’altra iniziativa che ha coinvolto decine di abitanti. Per quasi due mesi, ricorda Daher, le forze di polizia israeliane sono intervenute nella Città Vecchia. «Venivano ogni due, tre giorni, con la scusa di cercare armi e droga. Sfondavano le porte delle antiche botteghe, entravano nelle vecchie case e hanno persino dato fuoco a un paio di abitazioni e a un locale», aggiunge il ricercatore. «È stato subito chiaro che non stavano cercando proprio niente. Conoscono tutti i trafficanti d’armi e gli spacciatori. Volevano invece spezzare l’anima della popolazione, paralizzarla e seminare ulteriore disperazione».
Per questo la coppia, con l’iniziativa Fazza, ha lanciato un appello pubblico a ripulire il vecchio mercato, recuperare, riparare e ridipingere le porte divelte e lasciate a marcire in strada. «Avremmo potuto farlo da soli», ci spiegano, «ma abbiamo deciso di coinvolgere la comunità locale in questo progetto». La prima volta, ricordano, sono arrivate sei o sette persone ma, alla fine, dopo quattro mesi di lavoro, erano 40 o 50. «Tanti hanno iniziato a donare soldi, attrezzature e materiali», sottolinea Daher. «C’erano anche molti bambini». «Tanti genitori sono venuti con i loro figli, anche i nipoti, ed erano entusiasti», ricorda Razan. «Hanno persino imparato a dipingere e a usare il pennello». «Ovviamente non ci aiutavano, anzi, giocavano e dovevamo sempre stare attenti mentre lavoravamo ma la loro presenza è stata davvero importante perché vogliamo che sentano di appartenere a questo posto e che un giorno possano assumersene la responsabilità», aggiunge il marito. «È stata un’opportunità per una popolazione disperata di fare qualcosa e di vedere un risultato tangibile. Vivere a Nazareth è molto difficile con tutta questa spazzatura e l’alto tasso di criminalità, contro cui le persone non possono fare nulla. Almeno hanno potuto dipingere una vecchia porta arrugginita e renderla bella, pulita e riportarla in vita».

Sfida interiore
Purtroppo però, ammettono Razan e Daher, non è così per tutti. «Un nostro amico, che lavora nel settore dell’alta tecnologia, ha partecipato all’iniziativa per fare qualcosa di concreto per la sua città, portando anche la figlia», ricorda l’urbanista. «Ci ha raccontato di aver provato anche a convincere alcuni suoi colleghi: “Perché non venite anche voi con i vostri figli?”, ha detto loro. «Io porto mia figlia ed è molto felice, è un dovere nazionale e morale proteggere il nostro patrimonio storico e culturale”. Ma uno di loro gli ha semplicemente risposto: “Non voglio che i miei figli coltivino un senso di appartenenza a questo luogo. Voglio che se ne vadano”. E questo da un palestinese». La sfida di Razan e Daher, quindi, è tutt’altro che vinta. «Perché è all’interno della comunità stessa», conclude l’urbanista.
La questione palestinese dunque non è soltanto geopolitica ma anche architettura, arte, urbanistica. Pietre non da lanciare contro i soldati ma su cui ricostruire le abitazioni tradizionali, con finestre, orti, cortili che custodiscono l’identità di un popolo. La loro distruzione, per Razan e Daher, è una sconfitta, la loro tutela è resistenza. È un altro modo di combattere, senza armi ma con la memoria, anche solo riaprendo una porta.

* Una precedente versione dell’articolo riportava, erroneamente un intervento di rigenerazione del FAI. Ci scusiamo con i lettori 
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