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Hair India

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La tratta dei capelli indiani che parte dai templi indiani per arrivare nei lussuosi parrucchieri di Los Angeles, Londra e Parigi

È mattina presto sui ghat di Varanasi, in India, quando un piccolo esercito di barbieri armati di rasoio batte le scalinate che costeggiano il Gange in cerca di clienti.

Poco lontano, alcune donne nei loro sari colorati sono appena uscite dall’acqua dopo la preghiera e il bagno rituale. Con i capelli ancora umidi raccolti in lunghe code, si accovacciano in fila sulle scale vicino al tempio, pronte a farseli rasare a zero, come la tradizione impone alle donne del sud in pellegrinaggio nelle città sacre.

Qualche ora dopo i barbieri, con il loro bottino di capelli annodati e riposti con cura in una borsa, incontrano Mukesh, un intermediario che paga 200 rupie (tre euro circa) per ogni “testa”.

Almeno una volta nella vita gli induisti di ogni casta donano i propri capelli alle divinità: un antico rito di tonsura che simboleggia la sconfitta dell’ego, la rinuncia alla bellezza come sottomissione agli dei. Un voto, un rito di umiltà e di passaggio.

Ma dietro quest’antica tradizione si nasconde un giro d’affari multimilionario che parte dai templi indiani per arrivare nei più lussuosi parrucchieri di Los Angeles, Londra e Parigi.

È il business dei capelli, o meglio delle extension, una moda globale che in India ha dato vita a un mercato in continua crescita. Con un export annuo di centinaia di tonnellate di capelli, stime non ufficiali riportano che che il traffico complessivo ammonti a 230 milioni di euro.

L’epicentro del fenomeno è il tempio di Tirumala, vicino Tirupati, nello stato dell’Andhra Pradesh. Dedicato al culto di Sri Venkateswara, una reincarnazione del dio Vishnu, il tempio è un importante luogo di pellegrinaggio, tra i più visitati al mondo insieme al Vaticano e la Mecca.

Con 20 milioni di fedeli che ogni anno arrivano da tutta l’India per donare i capelli e fare offerte a Venkateswara – una delle sembianze in cui prende forma il dio Hindu Vishnu -, il tempio di Tirumala è anche tra i più ricchi d’India: parte dei suoi profitti proviene dalla vendita delle 75 tonnellate di capelli offerti ogni anno dai devoti. I soldi ricavati sono investiti in opere per la comunità, secondo quanto riferisce l’amministrazione del tempio.

Fino a una quindicina di anni fa, i capelli donati ai templi erano usati per imbottire materassi. Poi, con la diffusione globale delle extension, le offerte dei fedeli sono diventante un’importante fonte di profitto, soprattutto le lunghe trecce delle donne.

Da qui il boom del commercio di ciocche indiane, particolarmente ricercate sul mercato internazionale per la loro lunghezza e qualità: i capelli remy sono capelli “vergini” (mai tinti o trattati) che mantengono l’orientamento radice-punte, una caratteristica che fa la differenza e che ha trasformato l’India in uno dei principali esportatori mondiali di capelli naturali.

Ogni tre mesi l’amministrazione del tempio di Tirumala indice aste pubbliche (anche online) in cui si battono i prezzi per chili e chili di capelli. Divisi in base alla lunghezza e raccolti in grossi sacchi di juta, vengono venduti a intermediari per 200 euro al chilo circa (talvolta anche 400, per quelli di prima qualità).

Poi proseguono nel loro viaggio verso le imprese per la lavorazione del capello, dove vengono selezionati, pettinati, lavati e spediti a grossisti ed esportatori.

Una volta decolorati, tinti e cuciti insieme in piccole ciocche, i capelli vengono distribuiti ai coiffeur di tutto il mondo per infoltire le chiome delle donne in occidente, con prezzi che arrivano fino a 2.500 euro per una “testa completa”.

Il business dei capelli in India si estende a tutti i templi del sud e alle città sacre come Varanasi, Haridwar, Allahabad e Vrindavan, dove però gli intermediari fanno affari direttamente con i barbieri. Le ciocche di capelli che vengono donati ai templi, tuttavia, costituiscono solo il 20 per cento del totale dei capelli provenienti dall’India e si teme che il resto sia frutto di violenze e intimidazioni.

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