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Guida Bardi
Home » Esteri

Ma l’America ha lasciato sola l’Europa in Ucraina

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Il disimpegno militare Usa, le sanzioni alla Russia, la futura adesione di Kiev all'Ue. L’invasione di Putin è già costata centinaia di miliardi di euro al Vecchio continente, che ora rischia di dover far fronte da solo alla guerra. Ecco quanto potrebbe costarci

Comunque andrà a finire al Congresso, la querelle in corso da mesi negli Stati Uniti sugli ulteriori aiuti da inviare all’Ucraina mostra la reticenza di una parte dell’establishment americano a impegnarsi in Europa, lasciando sempre più solo il Vecchio continente sia di fronte alla sfida militare della Russia che alle conseguenze economiche della guerra.

S&D

Mentre a inizio mese l’Unione europea sbloccava un altro pacchetto da 50 miliardi di euro di contributi a favore di Kiev e promuoveva l’aumento della produzione di munizioni belliche per rifornire le forze armate ucraine, da metà gennaio gli Usa hanno fermato – per mancanza di fondi – ogni nuova forma di assistenza (anche militare) al governo di Volodymyr Zelensky che, nelle ore in cui scriviamo, sta perdendo il controllo di Avdiivka di fronte all’avanzata russa in Donbass.

La situazione è talmente grave che negli ultimi due mesi, anche di fronte al mancato invito all’adesione all’Alleanza atlantica previsto al prossimo vertice Nato di luglio a Washington, il presidente ucraino ha firmato prima uno storico memorandum d’intesa per la cooperazione in materia di sicurezza con il Regno Unito e poi accordi bilaterali simili con la Francia e la Germania. Come dire che il cerino rischia di restare in mano all’Europa, che ha già speso tanto e si prepara a sborsare ancora di più.

Variabile Donald
La recente approvazione di un disegno di legge al Senato Usa per fornire altri 60 miliardi di dollari di aiuti militari a Kiev (oltre a 35 miliardi a favore di Israele e Taiwan e per l’assistenza umanitaria a Gaza) ha scatenato un putiferio: 22 repubblicani hanno votato per il progetto promosso dai democratici mentre lo speaker (repubblicano) della Camera e alleato di Donald Trump, Mike Johnson, ha annunciato che non intende nemmeno calendarizzare la proposta. L’ex presidente e candidato in pectore alle elezioni di novembre si oppone da mesi all’invio di altre forniture (se non sotto forma di prestiti) a Zelensky, anche in virtù dei sondaggi sempre meno favorevoli ad assicurare ulteriori aiuti a Kiev.

In realtà, prima o poi, la nuova legge finirà per passare comunque: insieme alla richiesta del gruppo democratico, basta la firma di soli quattro deputati repubblicani per imporre la calendarizzazione del voto sulla proposta approvata dal Senato. Anche gli alleati di Trump lo sanno bene: in un’intervista radiofonica, il deputato repubblicano Andy Biggs, tra i più strenui oppositori ai nuovi contributi all’Ucraina, ha infatti riconosciuto che se la legge approdasse alla Camera passerebbe con i voti del Grand Old Party. «Siamo sinceri su questo», ha detto al The John Fredericks Show. Eppure buona parte dei loro elettori la vede in maniera diversa. Secondo un sondaggio condotto alla fine del 2023 dal Pew Research Center, il 48 per cento dei votanti repubblicani (e il 31 per cento del totale) ritiene che gli Stati Uniti stiano fornendo “troppi aiuti” all’Ucraina. 

Ma non è solo un problema dei repubblicani: un sondaggio pubblicato a novembre da Gallup rivela che anche il 44 per cento degli indipendenti (gli elettori che di solito spostano i voti tra un partito e l’altro) è d’accordo con questa linea. Un dato che un anno prima era molto diverso.

L’ultimo Cooperative Election Study (Ces), un’ampia indagine di stampo accademico condotta su 60 mila votanti in occasione delle elezioni di medio termine del novembre 2022, riportava che “solo” il 22 per cento (più di un americano su cinque) degli intervistati preferiva che gli Usa “non fossero coinvolti” nella guerra in Ucraina. Un trend preoccupante alla luce dei dati odierni, sia dal punto di vista dell’Ucraina che del resto d’Europa, anche considerando quanto il Vecchio Continente abbia già investito su Kiev. Insomma, comunque andrà a finire al Congresso l’aria negli Usa è cambiata e, forse, l’Ue dovrebbe cominciare a farsi due conti.

Il prezzo dell’amicizia
L’Unione europea resta, secondo i dati del Kiel Institute for the World Economy (IfW), il principale contributore all’assistenza dell’Ucraina. Tra il 24 gennaio 2022 e il 15 gennaio 2024, le istituzioni comunitarie hanno stanziato almeno 85 miliardi di euro tra aiuti finanziari, umanitari e militari a favore di Kiev, quasi 20 in più rispetto ai 67,7 degli Usa, che però restano il primo Paese del mondo per donazioni al governo Zelensky, seguito da Germania (22,06 miliardi di euro), Regno Unito (15,66 miliardi), Danimarca (8,76), Norvegia (7,57), Giappone (7,53), Paesi Bassi (6,21), Canada (5,78) e Polonia (4,3). In tutto, tra Bruxelles e i Paesi membri, il Vecchio continente ha promesso a Kiev oltre 144,1 miliardi di euro (di cui più di 77 già versati), compresi i circa 1,3 miliardi di aiuti dell’Italia, di cui 700 milioni in forniture militari.

Ma non basta: a queste cifre vanno aggiunti anche i costi sostenuti e i mancati guadagni delle aziende europee per i 12 pacchetti di sanzioni inflitte alla Russia. Secondo una ricerca pubblicata ad aprile scorso sulla rivista scientifica Journal of Policy Modeling e firmata da uno studioso giapponese, parliamo di almeno lo 0,2 per cento del Prodotto interno lordo dell’Unione europea. Un altro studio, condotto a novembre dal Centre for Economic Policy Research (Cepr) di Londra, quantifica questi costi nello 0,23 per cento del Pil dell’Ue. Quindi, considerando le stime della Banca mondiale per l’anno 2022, ci aggiriamo intorno a una cifra compresa fra i 33 e i 38,5 miliardi di euro. In totale però, secondo il Financial Times, si tratta di una perdita molto più alta per l’economia continentale, pari ad almeno 100 miliardi di euro.

A tutto questo bisogna aggiungere i maggiori costi in bolletta a carico delle famiglie dovuti all’aumento dei prezzi energetici, che al picco della crisi nel 2022 avevano raggiunto i 300 euro per megawatt/ora sul mercato del gas Ttf ad Amsterdam. Con la progressiva autonomia dalle forniture energetiche russe, l’Europa ha ridotto al 14,8 per cento la quota annua di carichi provenienti da Mosca, preferendo altre fonti come Norvegia (30,3%), Usa (19,4%), Qatar (5,3%) e Regno Unito (5,7%), da cui acquistiamo gnl a un prezzo solitamente superiore a quello delle partite consegnate via gasdotto.

Senza contare la conseguente fiammata dell’inflazione, che negli ultimi due anni ha raggiunto la doppia cifra in molti Paesi europei e che tuttora resta, secondo le previsioni della Banca centrale europea, al di sopra dell’obiettivo-limite del 2 per cento (oltre il 2,7), comportando anche una depressione della crescita dell’Ue, ferma sotto l’1 per cento annuo (circa lo 0,8).

Costi che, al di là dell’inflazione, non sono stati distribuiti “equamente”. Secondo la citata ricerca del Centre for Economic Policy Research ad esempio, la maggior parte delle perdite dovute alle sanzioni hanno colpito i Paesi dell’Est Europa storicamente più legati alla Russia e una volta satelliti o addirittura parte dell’Unione sovietica come Bulgaria, Lituania, Lettonia, Estonia, Ungheria, Slovacchia, Polonia e Repubblica Ceca. Tutte economie dipendenti dal settore agricolo, che (anche per questo) è in rivolta da mesi anche in Germania, Belgio, Francia, Spagna, Italia e Grecia.

La marcia dei trattori
Al di là delle rivendicazioni nazionali dei rispettivi movimenti, tra i motivi delle proteste c’è anche la pressione al ribasso sui prezzi agricoli dovuta all’importazione di prodotti alimentari e di allevamento, soprattutto cereali, uova e pollame, in arrivo dall’Ucraina, a cui è stato concesso di vendere nell’Ue le proprie carni e i frutti delle coltivazioni (senza pagare dazi) dopo l’uscita unilaterale della Russia dall’accordo per l’esportazione del grano attraverso il Mar Nero, mediato nel luglio 2022 da Turchia e Nazioni Unite e durato solo un anno.

Secondo i nostri agricoltori, allevare pollame e coltivare cereali in Ucraina costa molto meno che in Europa e questa concorrenza sta rovinando il mercato interno. Parliamo infatti di un vero e proprio peso massimo internazionale, con un’economia a vocazione agricola: in totale, il Paese invaso dalla Russia conta quasi 30 milioni di ettari di suoli altamente produttivi: la più grande superficie agricola del continente europeo, superiore a Germania e Polonia messe insieme.

Qui è tutto maxi: le venti maggiori società del settore in Ucraina detengono il 14 per cento della terra coltivabile del Paese e almeno 93 imprese controllano oltre 10mila ettari di terreni ciascuna. Se la dimensione media di un’azienda agricola ucraina è di oltre mille ettari, nell’Unione europea supera di poco i 16. Questo pone un problema anche in relazione alla futura adesione di Kiev all’Ue, i cui negoziati sono stati aperti alla fine dello scorso anno.

Anche se per l’ingresso del Paese nell’Unione ci vorranno molti anni, le previsioni parlano di un accesso piuttosto oneroso. Uno studio interno all’Ue stima infatti in 186 miliardi di euro gli ulteriori costi per il bilancio comunitario pluriennale, di cui 96 miliardi solo in sussidi agricoli. Cifre sovrastimate, almeno stando a una ricerca pubblicata a novembre dal Jacques Delors Centre, secondo cui l’effettivo impatto dell’adesione di Kiev si aggirerebbe intorno agli 11,4 miliardi di euro, facendo però affidamento sui contributi al bilancio europeo del Paese (che dipende in tutto e per tutto dalle donazioni internazionali, come abbiamo visto soprattutto da quelle dell’Ue) e sulla «capacità di adattamento» delle istituzioni comunitarie.

Tralasciando le altre voci di spesa, se l’Ucraina aderisse all’Ue con le norme attuali otterrebbe la fetta più ampia dei 386 miliardi di euro disponibili per la Politica agricola comune, che premia gli Stati membri in base alla superficie coltivata. Basta fare due calcoli: considerando una media di 266 euro annui per ettaro (dati del 2015), il principale colosso ucraino Kernel, che ha sede legale in Lussemburgo, è quotato alla borsa di Varsavia e coltiva mais, grano, girasole e soia su 530 mila ettari di terreni in undici regioni ucraine, incasserebbe non meno di 148 milioni di euro all’anno di contributi diretti. Per fare un confronto, secondo l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea), nel 2022 i contributi più alti pagati in Italia sono andati al consorzio First International Association (Finaf), che riunisce oltre novemila coltivatori tra il nostro Paese e la Francia, a cui sono andati in tutto 33,784 milioni di euro. Insomma, è come dire che l’ingresso di Kiev rischia di essere a carico delle nostre aziende del settore. Ma non è finita qui.

À la guerre comme à la guerre
Tra i costi futuri da considerare e che, se proseguirà il progressivo disimpegno militare e politico degli Stati Uniti, rischiano di essere a carico per lo più dell’Europa, c’è anche la ricostruzione, che potrà rivelarsi un grande affare per le aziende coinvolte, molto meno per i contribuenti che saranno chiamati a pagarla.

Secondo le stime elaborate in collaborazione tra il governo di Kiev, la Banca mondiale, la Commissione europea e le Nazioni Unite, il costo totale per ricostruire e rilanciare economicamente l’Ucraina nel prossimo decennio sarà di 452,8 miliardi di euro, di cui 14 miliardi da erogare subito nel 2024 «per le priorità immediate». Una cifra monstre, di cui per ora sono stati garantiti appena 5,1 miliardi.

Tutto questo sempre che la guerra finisca domani, un obiettivo difficilmente raggiungibile. Il principale rischio, politico-militare più che economico, è che l’Europa si ritrovi a dover gestire – di fatto da sola – un conflitto aperto ai suoi confini. Ipotizzando una continuazione delle ostilità e che i Paesi europei mantengano la linea di confronto con la Russia e di sostegno incondizionato a Kiev, secondo le stime del Kiel Institute for the World Economy (IfW), per ovviare alla mancanza di aiuti erogati dagli Stati Uniti nel corso del 2024 il Vecchio continente dovrà «raddoppiare il livello e il ritmo attuali di assistenza militare». Segnaliamo un dato su tutti: dal febbraio 2022 gli Usa hanno stanziato circa 2 miliardi di euro al mese in forniture per la difesa a favore di Kiev, risorse che potrebbero dover essere sostituite da nuovi impegni dell’Ue.

Questo è solo l’inizio: il disimpegno militare americano potrebbe costare molto di più all’Europa. Le recenti dichiarazioni di Donald Trump sulla Nato e le difficoltà politiche della Casa bianca a mantenere la barra dritta sugli aiuti all’Ucraina hanno riportato in auge l’idea di un superamento dell’Alleanza Atlantica, data quasi per morta prima dell’invasione russa e che oggi invece è tornata ad allargarsi accogliendo prima la Finlandia e presto la Svezia.

A partire dall’Italia e dal nostro ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani, in molti propongono la creazione di forze armate comuni, un progetto che nelle intenzioni dovrebbe efficientare i costi della difesa dei singoli Paesi ma che intanto prevede esborsi importanti.

Per prima cosa, anche per placare le preoccupazioni dell’ex (e forse futuro) presidente degli Usa, i membri dell’Alleanza atlantica hanno già promesso di ampliare il loro budget militare, raggiungendo – in 18 su 31 – l’obiettivo annuo del 2 per cento del Pil. La Nato, ha fatto sapere la scorsa settimana il segretario generale Jens Stoltenberg, si aspetta che quest’anno gli alleati europei aumentino di altri 33 miliardi di dollari le spese per la difesa, arrivando a un totale di 380 miliardi.

Nessuno sa invece quanto costerebbe un esercito europeo ma il mese scorso il Commissario dell’Ue per il mercato interno e i servizi, Thierry Breton, ha lanciato la proposta di un Fondo comunitario per la difesa da almeno 100 miliardi di euro, un’idea che però dovrà essere vagliata dalla prossima Commissione dopo le elezioni parlamentari di giugno. Chissà che gli elettori invece non optino per un maggiore sostegno a politiche di pace che, conti alla mano, sembrerebbe convenire a tutti, anche economicamente. Anche solo per non restare con il cerino in mano.

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