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Home » Esteri

“Noi i russi li odiamo”: TPI incontra la vicepremier dell’Ucraina e una sindaca in prima linea

Immagine di copertina

Una è la vicepremier Iryna Vereshchuck, l'altra la sindaca 37enne Natalia Balasinovich. Sono in prima linea nella controffensiva all'avanzata di Putin: ecco le loro storie

La strada è semideserta, ma al checkpoint non si passa. Nemmeno con l’accreditation, un foglio sudato tre settimane e rilasciato dal Ministero della Difesa per accedere a luoghi altrimenti off limits. Il militare in mimetica dà un colpo di voce alla radio. Dall’altra parte gli devono aver risposto quello che già dai gesti avevo intuito. Da soli non andiamo da nessuna parte, vengono a prenderci loro. Nessuna ripresa video, nessuna domanda su dove ci porteranno, nel frattempo. Passano cinque minuti e nella gimcana tra i jersey di cemento e i cavalli di frisia, questi punti di controllo di cui è ormai piena la città, si fa strada un van nero con i vetri oscurati: «Giornalisti per l’intervista?». «Sì», rispondo. «Lui è il traduttore e sta con me». Controllano i nomi sulla lista, i passaporti. Poi ci fanno salire e partiamo.

S&D

La vicepremier ucraina Iryna Vereshchuck è uno degli obiettivi più golosi per i russi, dopo il presidente Volodymyr Zelensky. La vogliono far fuori, ça va sans dire. In ogni modo. O con l’azione militare dell’esercito. O con contractor, infiltrati nel Paese da ben prima dello scoppio della guerra. O con sabotatori di cui la capitale appare infestata. Entriamo in un cortile, di fronte a noi un avamposto di sacchi di sabbia con un solo spiraglio libero, dritto al centro. E la canna di un kalashnikov puntata. Il palazzo è volutamente al buio. Ci accompagnano con le torce elettriche. Lungo il corridoio militari in tenuta da guerra e armi in braccio si stanno esercitando simulando un attacco. Ultima porta, poi finalmente mi viene incontro questa donna dallo sguardo glaciale ma accogliente.

L’avevo vista in fotografia, con il tailleur azzurro e i capelli color grano. Una riproduzione perfetta in carne ed ossa dei colori della bandiera nazionale. Oggi invece indossa una t-shirt verde militare su un pile marrone chiaro, pantaloni tecnici marroni anche loro. Anfibi ai piedi. Mi porge la mano. Non è una stretta decisa, ma mi basta iniziare ad ascoltarla per capire che la donna forte d’Ucraina oggi è lei, 42 anni, una laurea all’istituto militare del Politecnico di Leopoli, gli studi giuridici e cinque anni di servizio come ufficiale delle forze armate ucraine. Poi la politica: è la più giovane sindaca della minuscola Rava-Ruska, sua città natale, vicino al valico con la Polonia, la culla del patriottismo ucraino. Nel 2019 entra in parlamento nei Servitori del Popolo, formazione populista di centrodestra, la stessa del presidente Zelensky.

Oggi è una delle rivoluzionarie che più infiammano gli ucraini, anche per una notevole attività social a cui non si sottrae mai. «L’atto più rivoluzionario oggi è stare vicino al mio popolo», mi dice guardandomi dritta negli occhi. «Sono madre anche io e non posso tollerare le scene che abbiamo visto a Mariupol a Kharkiv e in tante città del nostro Paese. Madri che piangono i propri figli morti tra le braccia, ospedali pediatrici che vengono bombardati, scuole che diventano target. È questa la fratellanza di Vladimir Putin? È così che si trattano quelli che lui ha definito propri fratelli?». Non è precipitosa nei toni, non appassionata nelle risposte. Sceglie bene le parole. Le misura. Sa che in questo momento ogni cosa non fatta o detta per bene può disallineare ancora il piatto della bilancia del proprio Paese. Ma su una cosa va dritta, gelida e netta: «Questa non è la guerra di Putin contro Zelensky e contro il popolo ucraino. Questa è la guerra della civiltà contro la barbarie di chi ammazza ogni giorno donne, bambini, civili inermi. Non tutti i Paesi della Nato hanno davvero capito con chi hanno a che fare. Ogni bomba che cade sulla nostra terra, sul nostro Paese è una bomba che cade sulla democrazia e sui valori per cui siamo pronti a morire anche oggi»…
Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui

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