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Home » Esteri

Elena Basile a TPI: “Per arrivare alla pace bisogna trattare con tutti”

Immagine di copertina
Credit: AGF

“La breve tregua a Gaza mostra che si può negoziare anche con Hamas, segretamente lo si è sempre fatto. Ma l'Ue è subalterna agli Usa, sulla Palestina come sull’Ucraina”. L’ex ambasciatrice in Belgio e Svezia spiega a TPI come rilanciare il ruolo della diplomazia

Ambasciatrice Basile, la tregua a Gaza è durata appena una settimana ma è stata il risultato di un dialogo mediato dal Qatar. È possibile trattare persino con Hamas?
«Il negoziato sugli ostaggi e sulla tregua ha dimostrato che con Hamas si negozia e di fatto si è sempre segretamente negoziato. L’Occidente avrebbe dovuto farlo sin dal 2007. Ricordo che Hamas alle elezioni del 2006 aveva promesso di riconoscere lo Stato Palestinese in cambio del riconoscimento della soggettività palestinese. Come è stato con l’Olp, politica e mediazione avrebbero potuto sconfiggere il massimalismo e l’approccio terrorista portato a vedere nella lotta armata l’unica soluzione. L’Occidente al contrario ha isolato Hamas per poi permettere i finanziamenti del Qatar».

S&D

Perché Europa e Usa non l’hanno impedito?
«In fondo di Gaza qualcuno doveva pur occuparsi. Hamas, come aveva intuito Netanyahu, è stato molto utile alla destra israeliana. Ha permesso l’infame blocco della Striscia, un assedio che è risultato peggiore di un’occupazione, centellinando le forniture indispensabili: cibo, medicine, acqua, elettricità. E ha facilitato l’accelerazione degli insediamenti illegali in Cisgiordania. Gli abusi dei coloni e dello Stato occupante si sono moltiplicati».

Cosa stanno facendo invece ora?
«Gli Stati Uniti hanno assicurato l’impunità a Israele rifiutando la mediazione con Cina e Russia nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Oggi la politica di rifiuto del cessate il fuoco significa che l’Occidente è complice dei massacri di innocenti a Gaza, di punizioni collettive, di crimini di guerra».

Quale ruolo potrebbe giocare l’Ue?
«L’Europa mi sembra inesistente esattamente come in relazione alla guerra in Ucraina. L’appiattimento sulla linea statunitense e sugli interessi americani è inquietante, grazie alla Von der Leyen, pessimo ex ministro della Difesa tedesco e surrealistica presidente della Commissione europea che ha portato l’Ue a un livello di subalternità verso Washington mai raggiunto in passato».

A chi conviene la fine della tregua?
«Le tregue servono a Hamas e agli ostaggi. Alla popolazione civile serve il cessate il fuoco».

Quindi Hamas ne ha approfittato.
«Hamas esce per ora vincitore da questa sordida guerra. Impone condizioni, riesce a far liberare i prigionieri palestinesi, donne e bambini che l’unica democrazia del Medio Oriente deteneva in carcere. La strategia militare di Israele fa acqua da tutte le parti. Non sanno quanti miliziani di Hamas hanno ucciso e non sanno come distinguere l’organizzazione terroristica dai civili».

Ma nel conflitto sono coinvolti anche gli Hezbollah libanesi, sostenuti dall’Iran.
«Mi sembra che Hezbollah e Iran siano molto prudenti e non si lascino trascinare nell’escalation. Gli Hezbollah sono al governo in Libano. L’Iran sta faticosamente uscendo dal suo isolamento. Grazie alla mediazione di Pechino, dialoga con Riad».

Bisogna trattare anche con loro?
«Sarebbe opportuno che la diplomazia occidentale ritorni in vita, che gli Stati Uniti decidano di trattare con la Cina e che una conferenza di pace sia convocata al più presto con tutti gli attori della regione, inclusi Russia e Iran. Il cessate il fuoco va imposto a Israele. Gli Stati Uniti hanno le leve morali, militari e politiche per farlo».

L’obiettivo resta sempre “Due popoli e due Stati”?
«Dopo il 2000, la diplomazia occidentale ha fatto pochi sforzi per riesumare la questione palestinese. Durante i round negoziali di Oslo, le soluzioni individuate con la mediazione statunitense erano sempre più favorevoli a Israele che non allo Stato Palestinese. Malgrado le conquiste militari ottenute a partire dalla Guerra dei Sei Giorni non fossero riconosciute dalle risoluzioni dell’Onu, Tel Aviv restava la potenza forte del Medio Oriente e bisognava tenerne conto». 

Perché non si è mai raggiunta questa soluzione?
«Se si prende in considerazione, per esempio, l’offerta più generosa, quella del premier Ehud Barak nel 2000, gli israeliani offrivano il 92% della Cisgiordania (non tutta come previsto dalle risoluzioni Onu), una capitale al fianco di Gerusalemme Est (non Gerusalemme Est) e il ritorno dei profughi nei territori occupati (non nelle loro terre in Israele). Certo col senno del poi, le sofferenze sono state tali per il popolo palestinese che siamo pronti a condannare il rifiuto massimalista di Arafat, preoccupato dalla crescente popolarità di Hamas, ma è giusto comprendere che le soluzioni della pace propendevano per gli interessi del popolo vittorioso delle guerre». 

Poi cos’è successo?
«Dopo il 2000 l’interesse è man mano scemato. Stati Arabi e Occidente hanno assistito indifferenti all’aumento della forza bruta, del terrorismo di Stato di Israele  a cui rispondeva quello di Hamas e viceversa».

L’ultimo a provarci è stato Trump con gli Accordi di Abramo. Erano il vero obiettivo della barbarie del 7 ottobre?
«In accordo col vuoto della odierna diplomazia, gli Accordi di Abramo immaginavano di pacificare la regione mettendo sotto il tappeto il nodo essenziale del conflitto israelo-palestinese e avvicinando lo Stato ebraico ad Arabia Saudita, Barhein ed Emirati Arabi in base alla convenienza reciproca in termini di cooperazione economica e tecnologica. Sono emblematici del trionfo della tattica sulla strategia. Il 7 ottobre è stato un brusco e doloroso risveglio».

Anche il dossier sul nucleare iraniano però è in stallo.
«L’accordo sul nucleare iraniano è essenziale alla pace nella regione. Una politica di mediazione con Teheran, che non crei artificiali divisioni contro il regno del male: Cina, Russia, Iran, e non tenti di sobillare Riad contro la Repubblica islamica, costituirebbe una politica di stabilizzazione del Medio Oriente. Non credo, purtroppo, che gli americani e il loro avamposto nella regione, Israele, siano veramente interessati alla stabilità». 

Perché?
«Dovrebbero negoziare, accettare le richieste legittime dei loro antagonisti e rinunciare agli equilibri che li avvantaggiano. Israele invece dovrebbe ritirarsi dai territori occupati e riconoscere uno Stato di Palestina. Gli Usa dovrebbero considerare legittimi gli interessi di sicurezza e strategici dei loro rivali storici, Russia e Cina».

La guerra ha fatto riemergere anche tutte le contraddizioni della Turchia.
«La Turchia persegue i propri interessi nazionali, disallineandosi dall’Occidente in relazione alla Russia e al Medio Oriente. Resta un membro onorato della Nato. Erdogan è un autocrate come Putin, forse. Ma è rispettato e riverito dall’Occidente dei doppi standard. Ankara acquista credibilità sulla scena internazionale e riesce a dialogare con gli Stati Uniti come con Mosca, con Israele come con l’Arabia Saudita e l’Iran». 

Su Gaza si è schierato con Hamas mentre in Ucraina arma Kiev e poi media con Mosca, anche se l’accordo sul grano è durato solo un anno.
«La mediazione è stata proficua ma può fare poco se la potenza egemone (gli Usa, ndr), i suoi vassalli e gli Stati pedina, che di volta in volta utilizza, non considerano la mediazione utile». 

Continua però a tenere in sospeso l’adesione svedese alla Nato. Lei è stata ambasciatrice a Stoccolma, cosa ne pensa?
«Come Hans Blix, ritengo che la Svezia non dovrebbe entrare nella Nato. Di fatto è già vicina agli alleati atlantici, assiste alle riunioni e costruisce l’interoperabilità del suo esercito con quelli dell’Alleanza. Perché allora, con un’adesione ufficiale di Stoccolma, dovremmo provocare risposte e rappresaglie russe che alimentano la nuova Guerra fredda?».

Ma così la Turchia non rischia di complicare ulteriormente anche il suo processo di adesione all’Ue?
«Non credo che il disallineamento di Ankara possa nuocere nei negoziati di adesione all’Unione europea. Siamo abituati a vedere tattiche contraddittorie prevalere su strategie conseguenti. A volte è fatale, come diceva Kissinger, essere amici troppo stretti di Washington. Basterebbe pensare a Kiev. È proficuo invece rimanere alleati forti che sanno farsi rispettare».

Per esempio negoziando con la Russia?
«L’Europa dovrebbe ritrovare una voce e rappresentare l’interesse dei popoli europei. Spezzare la speciale relazione russo-tedesca e dell’Europa con la Russia basata su gas ed energia a basso prezzo in cambio di tecnologie, è un antico obiettivo degli Stati Uniti. Ci sono riusciti. Il vassallaggio dell’Europa (termine utilizzato da Zbigniew Brzezinski nel suo libro “La grande scacchiera”) è riuscito».

Quali obiettivi dovrebbe porsi allora l’Ue?
«L’Europa ha tutto l’interesse a riesumare la carta di Parigi, il sogno di una convivenza pacifica con la Russia e i suoi vicini, che andrebbero trattati alla pari e non come Stati perennemente sotto accusa perché appartenenti a civiltà, a nostro avviso, inferiori. Un armistizio di tipo coreano sarebbe un disastro per l’Europa. I nodi non risolti (neutralità, frontiere, Crimea, diritti dei russofoni, truppe di occupazione e sanzioni) condannerebbero l’Europa orientale a una perenne instabilità. La società civile europea ne pagherebbe prezzi economici, politici e culturali importanti. Non possiamo che sperare in un ritorno della ragione e in una classe dirigente europea differente».

E per quanto riguarda Kiev?
«La controffensiva ucraina strombazzata dai media, divenuti la cassa di risonanza della propaganda, in effetti non ha avuto luogo. Le truppe russe come durante la strategia contro Napoleone descritta mirabilmente da Tolstoj in “Guerra e Pace”, avanzano poco, difendono i loro uomini imponendo terribili perdite all’esercito ucraino e bombardando le infrastrutture vitali del Paese. Sarebbe nell’interesse di Kiev la mediazione oggi. Ma è impedita da un Occidente immorale che pensa piuttosto a salvare la faccia e alle elezioni di Joe Biden. Gli occidentali hanno distrutto un Paese e mandato a morte una generazione di diciottenni ma sono ancora arzilli, non sono stanchi. Con loro inneggia alla retorica militare e alla continuazione del conflitto la cosiddetta classe di servizio che comprende oltre ai diplomatici e ai burocrati, una certa stampa e una certa accademia, i “cani da Guardia”, come li chiamavano Paul Nizan e, in seguito, Serge Halimi».

Qual è il primo passo?
«Bisognerebbe uscire dalla mentalità da Guerra fredda, riconoscere la neutralità dell’Ucraina, la Crimea russa e l’avvicinamento economico di Kiev all’Europa, applicare i principi europei di rispetto delle minoranze linguistiche contenuti negli accordi di Minsk per potere assicurare la convivenza tra ucraini e russofoni nel Donbass. Nell’ambito di una conferenza su una nuova architettura di pace si potrebbe arrivare, negli anni, al ritiro delle truppe russe in cambio della cancellazione delle sanzioni. Il ‘dover essere’ sarebbe possibile se ci fosse una reale volontà politica. Se ci fosse l’Europa».

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