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Home » Esteri

Ma non dimentichiamoci di Gaza: l’offensiva a Rafah potrebbe cambiare tutto

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Il rinnovato confronto tra Israele e Iran relega la Striscia a fronte secondario. L’attesa offensiva sulla città dove sono rifugiati 1,4 milioni di sfollati sembrava sospesa. Ma è ancora in ballo e potrebbe cambiare lo scenario in Medio Oriente

Hanan ha 47 anni e prima della guerra viveva con i suoi sette figli a Gaza City ma poi un bombardamento israeliano ha ucciso cinque dei suoi ragazzi, sua nuora e due nipoti. Dopo aver trascorso due mesi in ospedale, oggi sopravvive con il resto della sua famiglia in una tenda di un sovraffollato campo per rifugiati a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove non fa altro che aspettare ore in fila per ricevere un po’ di cibo, dell’acqua o per andare in bagno, in attesa che la guerra finisca.

S&D

Ibrahim invece ha 30 anni ed è solo al mondo: viene da Jabalya, nel nord della Striscia, ma a Rafah ha perso i genitori, due fratelli, la cognata ed entrambe le nipoti. Un mese prima dei brutali attentati di Hamas e della Jihad Islamica in Israele, era tornato a casa dalla Turchia per sposarsi e invece ha vissuto l’inferno. Per mesi si è spostato con tutta la sua famiglia da una zona all’altra della Striscia per evitare gli scontri, finché a Rafah non ha trovato un magazzino dove rifugiarsi. Ma quando anche qui la situazione ha cominciato a farsi pericolosa per l’annunciata, ultima offensiva di Tel Aviv, i suoi hanno cominciato a organizzarsi per raggiungere Deir el-Balah. Il giorno prima della partenza stabilita Ibrahim stava comprando una tenda abbastanza grande per tutti, quando sentì la notizia di un bombardamento su un magazzino abitato da sfollati. Non riuscendo a mettersi in contatto con nessuno dei suoi parenti, camminò per dieci chilometri fino all’ospedale dove erano stati trasportati i feriti e lì scoprì che tutta la sua famiglia non c’era più. Anche lui, insieme a quasi 1,4 milioni di sfollati rifugiatisi a Rafah, non può far altro che aspettare l’evolversi degli eventi.

Il rinnovato confronto tra Israele e l’Iran sembra infatti aver messo in secondo piano il fronte di Gaza, dove il governo Netanyahu ha sospeso la prevista operazione «contro l’ultimo bastione di Hamas» a Rafah. Ma l’offensiva non è stata cancellata e potrebbe cambiare di nuovo le carte in tavola.

Conseguenze catastrofiche”
L’unica cosa certa, come emerso da un cablogramma riservato dell’ambasciata Usa in Israele trapelato alla stampa, è che un’invasione della città provocherebbe «conseguenze catastrofiche dal punto di vista umanitario», bloccando i già scarsi aiuti diretti alla popolazione e portando al definitivo collasso un sistema sanitario già ridotto ai minimi termini.

Secondo il cablo redatto da alcuni funzionari dell’agenzia United States Agency for International Development (Usaid), un’offensiva israeliana non lascerebbe scampo a migliaia di civili, che non avrebbero altro luogo dove fuggire vista anche la chiusura del confine con l’Egitto. Malgrado il rinvio dell’invasione per occuparsi dell’Iran, il governo di Tel Aviv sta approntando circa 40mila tende al di fuori della città per evacuare gli sfollati, segno che prima o poi intende comunque procedere all’azione.

Il governatorato di Rafah occupa una superficie di circa 64 chilometri quadrati, poco più del comune di Pavia, ma ospita più di 1,4 milioni di persone, quasi tutti sfollati, mentre il capoluogo lombardo conta 71mila abitanti. Quasi metà della popolazione è composta da bambini: secondo le stime dell’Unicef sono almeno 600mila, di cui il 5 per cento dei minori di due anni versa già in condizioni di malnutrizione.

I pochi ospedali rimasti accolgono ogni giorno un numero di pazienti tre volte superiore a prima della guerra, pur avendo quasi esaurito ogni risorsa e di fatto limitato l’assistenza al solo primo soccorso. Insomma dopo quasi 34mila vittime in tutta la Striscia, l’annunciata e poi sospesa offensiva potrebbe causare altre migliaia di morti e distruggere anche Rafah. Per farsi un’idea di cosa potrebbe succedere, basta guardare le zone poco più a nord da dove le truppe di Israele (Idf) si sono ritirate poche settimane fa.

La città di sabbia
Quasi 400mila persone vivevano a Khan Younis e nei dintorni prima del 7 ottobre ma dopo mesi di bombardamenti israeliani e pesanti scontri con i miliziani di Hamas e della Jihad Islamica gran parte dell’area oggi è in rovina. Eppure dopo il ritiro delle Idf, in molti hanno provato a tornare alle proprie case.

Tra loro ci sono anche la 38enne Maha e i suoi quattro figli, che prima della guerra vivevano nell’esclusivo quartiere di Hamad City, nella parte occidentale della città. Il conflitto però non fa distinzioni tra ricchi e poveri e non ha risparmiato nemmeno le case più abbienti: quando è tornata nella zona, la donna non ha riconosciuto subito le vie, una volta tanto familiari. La maggior parte dei condomini è stata rasa al suolo e ai pochi palazzi ancora rimasti in piedi mancano qui una finestra, lì un muro o un intero piano. Lei è tornata nel suo appartamento semidistrutto, senz’acqua corrente, né luce o gas ma che è comunque meglio di una tenda, altri invece non sono stati così fortunati. In molti non hanno trovato più nulla e sono stati costretti a tornare indietro.

Le strade sono diventate poco più che piste di sabbia, nel cortile del Nasser Medical Complex sono state scoperte almeno quattro fosse comuni con oltre 200 cadaveri e interi quartieri sono solo un cumulo di macerie, inquietante presagio di quello che potrebbe accadere a Rafah. Alla fine infatti, a pagare il conto dello spostamento dell’attenzione internazionale sul più ampio scontro tra Israele e l’Iran potrebbero essere, come sempre, i palestinesi.

Dove finisce la linea rossa
Soltanto un mese fa, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden avvisava pubblicamente il governo Netanyahu che Washington considerava l’offensiva sulla più meridionale delle località di Gaza come una «linea rossa» da non oltrepassare. Oggi lo scenario è decisamente cambiato: per la Casa bianca la soglia massima è diventata una guerra su vasta scala contro Teheran.

Tel Aviv, aveva detto Biden, «non può permettere che altri 30mila palestinesi muoiano» a Rafah. Eppure, aveva precisato il presidente Usa, non esiste alcuno scenario in cui Washington ritiri l’assistenza militare a Israele. Insomma, lo Stato ebraico non avrà un assegno in bianco dagli Stati Uniti ma nemmeno dovrà preoccuparsi più di tanto delle conseguenze.

D’altronde, dopo più di 14mila minori uccisi nella Striscia in sei mesi di guerra, il più plateale gesto di dissenso da parte di Washington è stata l’astensione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco a Gaza, seguita dall’approvazione del trasferimento di altre migliaia di bombe a Israele avvenuta lo stesso giorno della strage di 7 operatori umanitari della no-profit statunitense World Central Kitchen, uccisi in una serie di raid dello Stato ebraico.

In un contesto simile, la contro-rappresaglia messa in atto da Israele contro l’Iran, con l’attacco a una base aerea militare vicino alla città di Esfahan, dimostra una volta di più come le pressioni esercitate dagli Usa abbiano ormai scarsa presa su Tel Aviv, sebbene Washington continui a essere il suo più stretto alleato, nonché il suo principale finanziatore e fornitore di armi. Israele ha deciso di rispondere a Teheran malgrado Biden fosse contrario. La stessa cosa potrebbe accadere a Rafah, dove milioni di persone come Hanan e Ibrahim, che hanno già perso quasi tutto, aspettano solo di sapere se riusciranno a sopravvivere a una guerra di cui, dopo oltre sei mesi di massacri, non si vede ancora la fine.

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