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Home » Esteri

La guerra nel cloud: se anche Microsoft dice no a Israele

Immagine di copertina
Credit: AGF

Il colosso informatico ha revocato all’intelligence di Tel Aviv l’accesso a una piattaforma IA usata per sorvegliare i palestinesi. Ecco come funziona e come lo Stato ebraico sfrutta servizi simili di Google e Amazon per mantenere il controllo sulla Cisgiordania e per le operazioni a Gaza

Era un pomeriggio del novembre 2021 quando l’allora comandante dell’Unità 8200 dell’intelligence militare israeliana, Yossi Sariel, incontrò l’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella, presso la sede centrale del colosso tecnologico a Seattle, negli Usa. Israele aveva necessità di archiviare enormi quantità di informazioni e per farlo voleva accesso alla piattaforma di cloud computing Azure di proprietà dell’azienda fondata da Bill Gates. Allora, almeno secondo Microsoft, Nadella non era a conoscenza delle intenzioni dell’intelligence israeliana ma l’accordo fu stretto. Così, a partire dal 2022, lo Stato ebraico ha potuto sfruttare i servizi in cloud di Azure e gli strumenti basati sull’intelligenza artificiale collegati alla piattaforma per sviluppare un modello che consentisse all’Unità 8200 di archiviare dalle proprie basi le informazioni raccolte su milioni di palestinesi in Cisgiordania e a Gaza.
L’obiettivo? Registrare e conservare «un milione di chiamate all’ora». Anche se a fine settembre il colosso tecnologico statunitense ha sospeso l’accesso alla piattaforma da parte di Israele, a luglio di quest’anno, dopo due anni e mezzo di operazioni, l’intelligence israeliana aveva archiviato almeno 11.500 terabyte di dati militari, pari a circa 200 milioni di ore di file audio, sui server di Microsoft nei Paesi Bassi, in Irlanda e nello Stato ebraico. Non è finita: perché l’azienda americana ha comunque continuato a collaborare con Israele, che si affida anche ad altre Big Tech per sviluppare servizi digitali a scopo bellico e di sorveglianza, sia a Gaza che in Cisgiordania. 

Spazio infinito
Ma la collaborazione tra Microsoft e l’Unità 8200 dell’intelligence militare israeliana risale a ben prima dell’ultima guerra nella Striscia e degli attentati del 7 ottobre 2023. Secondo un’inchiesta congiunta della testata israelo-palestinese +972 Magazine in collaborazione con il portale israeliano Local Call e con il quotidiano britannico The Guardian, tutto cominciò con l’arrivo di Sariel alla guida dell’unità israeliana a cui è affidata la guerra elettronica. Il suo obiettivo era «monitorare tutti (i palestinesi, ndr), in ogni momento». Per questo sviluppò dapprima il sistema “Noisy Message”, che permetteva di raccogliere anche i messaggi di testo inviati dai Territori occupati, assegnando a ciascuno un punteggio in base al presunto livello di pericolo per le truppe e i civili israeliani. Ma i server militari non riuscivano a gestire una tale mole di dati e di traffico, così Sariel spinse per la migrazione in cloud e strinse l’accordo con Microsoft per accedere ad Azure.
Lanciata sul mercato nel 2010, la piattaforma offre più di 200 prodotti e servizi ai propri clienti, tra cui figura il 95% delle 500 maggiori imprese statunitensi selezionate da Fortune in base al fatturato, grazie a una rete di oltre 400 data center sparsi in più di 70 regioni del mondo. Azure offre però anche funzionalità intelligenti per aiutare i propri clienti a gestire le infrastrutture digitali, i carichi di lavoro e la mole di dati archiviati. Esattamente ciò di cui i servizi israeliani avevano bisogno: lo scopo dell’accordo stipulato alla fine del 2021 ed entrato in vigore l’anno successivo, secondo l’inchiesta, era «trasferire fino al 70% dei dati» raccolti dall’Unità 8200, «incluse informazioni top secret», ad Azure. Per lo più si trattava di file audio, presumibilmente registrazioni di telefonate, su cui elaborare informazioni di intelligence. La piattaforma infatti, secondo quanto riporta il sito-web di Microsoft, offre anche funzionalità intelligenti di trascrizione, traduzione, analisi linguistica e di riconoscimento del sentiment di una conversazione, riepilogo, analisi di documenti e immagini. Ma il colosso statunitense non pareva essere a conoscenza delle finalità dei servizi segreti militari israeliani.

L’ultima mossa di Redmond
L’azienda americana, subito dopo l’uscita dell’inchiesta delle testate israeliana e britannica, aveva «avviato una revisione formale delle accuse (…) relative all’utilizzo di Microsoft Azure da parte di un’unità delle Idf». A fine settembre poi, malgrado la revisione ancora in corso, il vicepresidente Brad Smith ha annunciato di aver «interrotto e disattivato una serie di servizi per un’unità del ministero della Difesa israeliano», dopo aver «trovato prove a supporto di alcuni elementi» dell’inchiesta giornalistica, «relative al consumo della capacità di archiviazione di Azure nei Paesi Bassi e all’utilizzo di servizi di intelligenza artificiale».
Microsoft però ha precisato di non fornire «tecnologie per facilitare la sorveglianza di massa dei civili» e di rispettare e proteggere «il diritto alla privacy». «Ciò significa, tra le altre cose, che non accediamo ai contenuti dei nostri clienti in questo tipo di indagini», ha sottolineato in una nota Smith, secondo cui «la revisione è (ancora, ndr) in corso». Prima e unica azienda tecnologica a sospendere finora l’accesso di Israele ad alcuni suoi servizi, come ha assicurato il suo vicepresidente, Microsoft «continuerà a essere guidata da principi etici». Sebbene non sia ancora ben chiaro a quali servizi sia stato negato, in tutto in parte, l’accesso da parte della multinazionale a Israele, la nota di Redmond ha comunque indirettamente confermato una serie di indiscrezioni emerse negli ultimi anni circa i suoi rapporti con i militari israeliani. 

Offerta intelligente
Oltre all’accesso alla piattaforma Azure infatti, come mostra un’altra inchiesta del portale statunitense Drop Site News, il colosso tecnologico statunitense ha anche fornito all’esercito dello Stato ebraico la possibilità di accedere al modello GPT-4 di OpenAI, il motore dietro ChatGPT, grazie a una partnership con lo sviluppatore degli strumenti di intelligenza artificiale. Non solo: l’Idf ha sfruttato la tecnologia Microsoft anche per sviluppare un sistema volto a gestire il registro della popolazione e gli spostamenti dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, chiamato “Rolling Stone”. Inoltre, durante l’offensiva di Gaza, la suite di sistemi di comunicazione e messaggistica di Microsoft è stata utilizzata anche dall’unità Ofek dell’Aeronautica militare israeliana, responsabile della gestione di grandi database di potenziali obiettivi per attacchi aerei letali, noti come “target bank”.
Nel corso dell’invasione della Striscia poi, secondo l’inchiesta del Guardian, gli ingegneri di Microsoft avrebbero persino fornito supporto alle unità di intelligence dell’Idf, compresa un’altra unità di spionaggio segreta, la 9900, che raccoglie e analizza informazioni visive, per supportare il loro utilizzo dell’infrastruttura cloud dell’azienda americana. Tra l’inizio della guerra nell’ottobre 2023 e la fine di giugno 2024, il ministero della Difesa israeliano avrebbe accettato di acquistare 19mila ore di «supporto ingegneristico e servizi di consulenza» da Microsoft «per assistere un’ampia gamma di unità dell’Idf». Un accordo da quasi 10 milioni di dollari. Ma non è l’unico tra le Big Tech americane e i militari di Israele.

Raid algoritmici
L’Idf utilizza infatti da anni i servizi di cloud storage e di intelligenza artificiale forniti dai colossi tecnologici della Silicon Valley. Nel corso di una conferenza tenuta il 10 luglio del 2024 a Rishon Lezion, vicino a Tel Aviv, il colonnello Racheli Dembinsky, comandante dell’unità responsabile dell’elaborazione dati per l’intero esercito, ammise che Big Tech aveva permesso all’Idf di acquistare, con un semplice clic, server di archiviazione e di elaborazione illimitati, senza l’obbligo di archiviare fisicamente i dati nei server dell’esercito. Il vantaggio «più importante» offerto da queste aziende però, spiegò allora Dembinsky davanti a una platea di un centinaio tra militari e industriali, risiedeva nelle loro avanzate capacità nei settori dell’intelligenza artificiale e dei big data. Collaborare con queste multinazionali, concluse il colonnello, aveva garantito all’esercito israeliano «un’efficacia operativa molto significativa» nella Striscia di Gaza.
Per aumentare i raid infatti, l’Idf si è avvalsa di vari programmi intelligenti. Il primo, denominato Lavender (letteralmente “Lavanda”), identificava i “bersagli umani” da colpire, una lista di circa 37mila persone considerate legate a Hamas e alla Jihad Islamica e potenzialmente da uccidere. Il software assegnava loro un punteggio in base ai dati raccolti dai sistemi di sorveglianza israeliani sulla Striscia e li classificava a seconda della loro importanza nell’organizzazione. La limitata affidabilità del sistema, non superiore al 90%, portò però i militari israeliani ad accantonarne progressivamente l’utilizzo. Ma questo non vuol dire che l’Idf abbia smesso di utilizzare la tecnologia e l’IA nel corso della guerra, anzi.
L’esercito di Tel Aviv ha usato anche un altro programma intelligente denominato Habsora (letteralmente “Vangelo”), per aiutare i militari a identificare molti più obiettivi rispetto al passato: dai 50 bersagli all’anno del 2021 si è arrivati ai quasi 100 al giorno dell’ottobre del 2023, di cui la metà attaccata nel giro di poche ore. Il software consentiva inoltre di selezionare i cosiddetti “power targets”, obiettivi di natura non strettamente militare come abitazioni private, edifici pubblici, infrastrutture e grattacieli.
Ma il ricorso alle nuove tecnologie da parte dell’Idf non è limitato ai soli raid aerei. Una delle app sviluppate da Tel Aviv, che girano sul cloud interno dell’esercito, si chiama infatti “Z-Tube”, una sorta di YouTube che permette ai soldati di accedere in diretta alle immagini trasmesse dai dispositivi di sorveglianza sparsi in tutta Gaza, droni compresi. Un’altra, denominata “MapIt”, permette ai militari di contrassegnare i bersagli in tempo reale su una mappa interattiva. Un’altra ancora invece, “Hunter”, consente di segnalare dal campo gli obiettivi da colpire e di rilevare modelli di comportamento tramite l’intelligenza artificiale. Tutti questi strumenti però hanno bisogno di sempre più spazio di archiviazione e così i militari israeliani si sono rivolti alle Big Tech.

Project Nimbus
L’esercito di Tel Aviv, come spiegato l’anno scorso dal colonnello Dembinsky, usava già una propria piattaforma operativa in cloud sui server militari interni, su cui girano tutti i programmi sopracitati. Tuttavia, con l’invasione di Gaza, questi sistemi sono andati in sovraccarico a causa dell’enorme mole di dati raccolta. In prima battuta, secondo la comandante dell’unità del Centro di Calcolo e Sistemi Informativi dell’Idf, Tel Aviv decise di attivare i server di riserva disponibili nei magazzini militari e di creare un nuovo data center, ma non bastò. Così Israele scelse di rivolgersi alle multinazionali tecnologiche. D’altra parte l’aveva già fatto.
Sempre nel 2021 infatti Tel Aviv firmò un contratto da 1,2 miliardi di dollari con Amazon e Google nel quadro del cosiddetto Progetto Nimbus, oggetto allora di un’inchiesta di TPI. L’obiettivo dichiarato era incoraggiare i ministeri israeliani a trasferire i propri sistemi sui server cloud delle due aziende, usufruendo così dei servizi più avanzati da queste offerti. Il governo israeliano e le imprese coinvolte hanno sempre affermato che i dati caricati sulle piattaforme oggetto dell’accordo riguardavano solo «materiale non classificato», quindi nulla a che fare con la sorveglianza e le attività belliche e di sicurezza in Cisgiordania e a Gaza. Tuttavia un’altra inchiesta della testata israelo-palestinese +972 Magazine in collaborazione con il portale israeliano Local Call ha rivelato che dall’ottobre 2023 le Big Tech hanno «fornito servizi di archiviazione dati e intelligenza artificiale alle unità dell’esercito che gestiscono informazioni riservate». In questo periodo, secondo le fonti citate dalle due testate, è stato registrato «un drastico aumento degli acquisti di servizi da Google Cloud e Amazon Web Services», per lo più «tramite il contratto Nimbus».
Un dato non confermato dalle due multinazionali, eppure come previsto dall’accordo firmato nel 2021, negli ultimi anni sia Google che Amazon hanno inaugurato nuovi data center in Israele, creando un’infrastruttura che ricade esclusivamente sotto la giurisdizione dello Stato ebraico e permettendo di archiviare informazioni in cloud durante il conflitto senza il timore di intervento da parte di tribunali esteri. Questo sistema inoltre, secondo l’inchiesta, ha consentito all’esercito israeliano di creare una riserva quasi infinita di informazioni, che da allora non devono più essere selezionate e cancellate per risparmiare spazio. Tutto grazie alla collaborazione con le Big Tech.

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