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Sudan Connection: la geopolitica del massacro tra oro, armi e interessi internazionali

Immagine di copertina
Il raid con droni armati delle Rsf su Port Sudan del 6 maggio 2025. Credit: AGF

Droni turchi, iraniani e cinesi, jihadisti locali e mercenari da mezzo continente, i porti sul Mar Rosso, la diga sul Nilo in Etiopia e i mercanti d’oro a Dubai. La guerra tra ex alleati golpisti è la facciata di un conflitto che va ben oltre il Paese e nasconde sporchi traffici

Il conflitto in corso in Sudan, dopo due anni e mezzo di spargimenti di sangue, non è più (solo) una guerra civile. Il Paese africano è infatti al centro degli appetiti e degli interessi di milizie locali, Stati vicini, potenze regionali e globali, il che rende sempre più complicata una soluzione a lungo termine.

Importanza strategica
La sua principale risorsa è la posizione geografica, che lo rende un collegamento centrale tra il Nord Africa, il Sahel e il Sub-Sahara nonché, grazie ai quasi 700 chilometri di costa sul Mar Rosso, con la Penisola Arabica e lo Stretto di Bab al-Mandeb, uno dei colli di bottiglia marittimi vitali per il commercio internazionale e il trasporto di petrolio, che collega queste acque al Golfo di Aden e al Mar Arabico. Da sud a nord inoltre è attraversato dal Nilo, i cui tratti Azzurro e Bianco si incontrano proprio nei pressi della capitale Khartoum, rendendolo vieppiù un crocevia fondamentale, soprattutto per i vicini Etiopia ed Egitto. Non a caso dal Paese passano alcune delle più importanti rotte migratorie che dal cuore del continente arrivano in Europa e nel Golfo, alimentate dal conflitto in corso. Il Sudan però figura anche tra i maggiori produttori d’oro in Africa, vantando inoltre importanti riserve di cromo, manganese, zinco, minerali di ferro e uranio e anche giacimenti di idrocarburi, soprattutto lungo le regioni di confine. Non sorprende quindi l’interesse delle potenze globali e regionali sia per gli scali sul Mar Rosso che per lo spazio aereo e il territorio del Paese africano. Ma prima di affrontare il quadro internazionale, esaminiamo le divisioni sul campo.

Intrecci locali
I generali Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo “Hemeti” si somigliano più di quanto vorrebbero far credere. Insieme hanno compiuto un golpe militare per impedire il ritorno dei civili al potere, guidando per 18 mesi come presidente (Burhan) e vicepresidente (Hemeti) il Consiglio sovrano di transizione, che di fatto governava un Paese riuscito soltanto nel 2019 a liberarsi da tre decenni di dittatura di Omar al-Bashir. La situazione era degenerata il 15 aprile 2023, quando le Rapid Support Forces (Rsf) di Hemeti avevano attaccato le Sudanese Armed Forces (Saf) di Burhan, che le aveva poi messe fuori legge. Ma la storia, come spesso accade, è un po’ più complessa.
Cominciamo con il dire chi è praticamente fuori dai giochi. L’Alleanza Civile Democratica delle Forze Rivoluzionarie del Sudan (Sumud), guidata dall’ex premier Abdalla Hamdok e composta da sindacati e associazioni che furono fondamentali nel rovesciamento del regime, pur godendo di un appoggio nominale della comunità internazionale, non ha alcun controllo sul territorio. Parimenti il Sudan Liberation Army (Sla) di Abdul Wahid Mohamed al-Nur, che al contrario ha una  presenza rilevante a livello locale in Darfur, ma che, il 7 novembre scorso, dichiarò qui a Roma che il suo movimento non appoggia nessuna delle fazioni in conflitto. Lo scontro infatti è monopolizzato dalle Rsf e dalle forze armate di al-Burhan, le cui coalizioni però sono piuttosto eterogenee.

Due facce dello stesso golpe
I paramilitari di Hemeti sono gli eredi di fatto dei famigerati Janjaweed accusati di crimini indiscriminati in Darfur, poi integrati nel regime e rafforzati grazie al sostegno ricevuto da al-Bashir e dall’esercito. Tra i principali alleati interni figura la fazione del Sudan People’s Liberation Movement–North (Splm/A–N) guidata da Abdelaziz al-Hilu, che a luglio è diventato il vice di Hemeti nell’ambito della Sudan Founding Alliance (Tasis). Questo cosiddetto “Governo di Pace e Unità”, guidato dal politico Mohamed Hassan al-Ta’ayshi e costituito a Nyala, vicino al confine occidentale con il Ciad, riunisce a sua volta una ventina di altri movimenti e gruppi paramilitari. Tra questi figurano anche i fedelissimi del generale Fadlallah Burma Nasir, ex leader del Partito Umma; quelli del “ministro degli Interni” del Tasis, Suleiman Sandal, a capo di una fazione di fuoriusciti dal Justice and Equality Movement; e quelli dell’ex ministro delle Comunicazioni del Partito Unionista Democratico, Ibrahim al-Mirghani.
Ma se le Rsf appaiono come una coalizione di milizie e fazioni di ex membri di altri movimenti più o meno affiliati al vecchio regime, nemmeno le forze armate di Burhan possono contare soltanto su truppe regolari. Fin dall’inizio del conflitto infatti, il governo de facto stabilitosi provvisoriamente a Port Sudan ha ottenuto l’appoggio degli orfani del disciolto Partito del Congresso Nazionale guidato dall’ex dittatore e della coalizione Broad Islamic Current di Ali Karti, di cui fa parte anche il Movimento Islamico Sudanese (Sim) e altri ispirati ai Fratelli Musulmani. Un’alleanza che ha permesso ad al-Burhan di avvalersi di milizie jihadiste come la brigata al-Bara ibn Malik. La formazione è oggi guidata da Amar Abdul Wahab Sid Ahmed ma era già stata costituita dal regime nell’ambito delle cosiddette Forze di difesa popolari. Questi gruppi paramilitari furono usati dal 1989 da al-Bashir contro il Sudan People’s Liberation Army (Spla) del defunto John Garang e dell’ex presidente sud-sudanese Salva Kiir ai tempi della guerra di liberazione del Sud Sudan, le cui forze armate occupano ancora una porzione di territorio al di là della frontiera.
Insomma, malgrado tra gli alleati di al-Burhan vi siano anche le Darfur Joint Forces, composte da ex milizie di opposizione come il Justice and Equality Movement (Jem) di Gibril Ibrahim e dalle forze fedeli al governatore “in esilio” Minni Minnawi, tra le autorità provvisorie di Nyala (il Tasis delle Rsf) e Port Sudan (fedele all’esercito), si fronteggiano non solo due facce dello stesso golpe ma interi pezzi del vecchio regime, da cui hanno ereditato almeno in parte i propri sostenitori a livello internazionale.

mappa guerra civile sudan geopolitica

La geografia delle ostilità
Entrambi infatti hanno cercato di rafforzare le alleanze con i Paesi vicini, le milizie che vi operano e le potenze regionali e globali interessate al controllo delle vie d’acqua strategiche del Nilo e del Mar Rosso e all’accesso alle risorse aurifere e minerarie sudanesi, sfruttando prossimità politiche, etniche e confessionali.
L’Egitto, in particolare, è schierato con le forze armate di al-Burhan, che considera un alleato contro la Grand Ethiopian Renaissance Dam costruita dalla multinazionale con sede a Roma, Webuild Group (ex Salini Impregilo) sul fiume Nilo, in Etiopia. Un sostegno che si traduce in appoggio diplomatico e forniture militari da parte del Cairo, sempre più preoccupato dalla linea di rifornimento che si snoda lungo una complessa e mutevole rete di piste nel deserto che va dalla Libia orientale, attraverso il Ciad, fino alle zone del Darfur controllate dalle Rsf. Tale rotta, secondo un rapporto reso l’anno scorso al Consiglio di Sicurezza Onu dal gruppo di esperti sul Sudan, è gestita dagli uomini di Hemeti in collaborazione con milizie alleate del maresciallo libico Khalifa Haftar, quali la Brigata salafita Subul Al-Salam e la 128esima Brigata. Il tutto sotto la supervisione di Saddam Haftar, figlio del generale, e passando attraverso l’oasi di Kufra, nel sud-est della Libia.
Da qui partono rifornimenti che arriverebbero dagli Emirati Arabi Uniti, considerati – malgrado le smentite di Abu Dhabi – il principale fornitore di armi, mercenari e finanziamenti al gruppo di Hemeti, che invia poi l’oro estratto dalle miniere sotto il suo controllo proprio a Dubai attraverso una rete di società legate al fratello Algoney Hamdan Dagalo Musa.
Gli esperti dell’Onu sospettano che il passaggio di questi carichi di armamenti, munizioni e miliziani siano favoriti non solo dalle autorità de facto della Libia orientale ma anche dai governi di Ciad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Kenya, Etiopia e Uganda. Gruppi armati presenti in particolare in Ciad, Sud Sudan e Libia addestrerebbero e fornirebbero reclute alle milizie fedeli a Hemeti lungo le zone di confine, mentre il governo del premier etiope Abiy Ahmed sostiene apertamente le Rsf, che hanno combattuto al fianco di Addis Abeba nella sua guerra contro il Fronte di Liberazione Popolare del Tigray (Tplf). Al contrario, sebbene la vicina Eritrea abbia inizialmente appoggiato a livello diplomatico al-Burhan, il regime di Isaias Afwerki ha ufficialmente adottato una posizione neutrale, su cui però sorge qualche dubbio. L’anno scorso infatti una milizia affiliata alla formazione del governatore “in esilio” del Darfur Minni Minnawi, addestrata nella regione eritrea del Gash Barka, ha cominciato a operare in Sudan orientale al fianco delle forze armate sudanesi.
Ma queste ultime possono contare su ben altri e più potenti amici. Al-Burhan gode infatti del sostegno diplomatico e finanziario dell’Arabia Saudita, che fa parte del formato di mediazione Quad insieme a Usa, Egitto ed Emirati Arabi, ma anche di Qatar, Turchia e Iran, che forniscono al suo esercito munizioni e droni. Ankara, in particolare, ha ottenuto nel 2017 una concessione di 99 anni a Suakin, sulla costa del Mar Rosso, confermata dalle autorità di Port Sudan, mentre Teheran punta ad alleggerire gli effetti delle sanzioni internazionali, proteggendo al contempo la rotta del petrolio. Un accordo simile a quello firmato con la Turchia era stato raggiunto anche con la Russia, che dal governo fedele all’esercito oggi guidato dal premier Kamal Idris, nominato a maggio da al-Burhan, ha ottenuto di poter costruire una propria base militare sul Mar Rosso. Un’intesa firmata in realtà anche con gli Emirati Arabi, ma se il primo accordo con Mosca non registra ancora passi avanti, il secondo con Abu Dhabi è stato addirittura annullato per l’appoggio esplicito del regno alle Rsf. Persino la Cina, interessata a proteggere l’accesso del petrolio sud-sudanese a Port Sudan, mantiene rapporti diplomatici con l’esecutivo fedele ad al-Burhan, malgrado per combatterlo le Rsf si avvalgono di droni e altri materiali bellici prodotti da Pechino e presumibilmente forniti loro proprio dagli Emirati Arabi.

Traffico di armi
Il coacervo di interessi a malapena citati ci fa capire quanto, nonostante la disattenzione dimostrata per il conflitto negli Usa e in Europa, questo sia inestricabilmente collegato a tante altre vicende internazionali, a cominciare dalle armi usate dalle parti in lotta.
Come in Nagorno-Karabakh, in Ucraina e a Gaza, anche in Sudan i droni fanno sempre più la parte del leone. Le forze armate di al-Burhan, ad esempio, possono contare sul modello Safrouq di produzione locale, dotato di tecnologia anti-jamming, capacità di ricognizione e di attacco unidirezionale, che ha una gittata di circa 600 chilometri. Sviluppati a partire dai risultati ottenuti da una partnership conclusasi nel 2016 tra il regime di al-Bashir e l’Iran, questi velivoli costituiscono oggi una risposta al sistema di difesa Groza-S di fabbricazione bielorussa in dotazione alle Rsf. A tali droni “nazionali” però si aggiungono anche i turchi Bayraktar TB2 e Akinci, consegnati all’esercito sudanese attraverso l’Egitto, e i modelli iraniani Mohajer-4, Mohajer-6 e Ababil, scaricati via mare, secondo testimoni citati da Reuters, a Port Sudan.
Le Rsf invece, stando alle denunce di Amnesty International, avrebbero a disposizione i droni kamikaze FH-95 e altri armamenti di fabbricazione cinese come bombe guidate GB50A e obici AH-4 da 155 mm, che sarebbero stati loro forniti dagli Emirati Arabi. Inoltre, secondo una recente inchiesta del Wall Street Journal, Abu Dhabi avrebbe consegnato agli uomini di Hemeti anche altri velivoli senza pilota della serie Rainbow, realizzati dalla China Aerospace Science and Technology Corporation, tra cui i nuovi CH-95, capaci di montare armi di precisione e di effettuare ricognizioni a lungo raggio e attacchi aerei 24 ore su 24. Ma questo non è l’unico grande affare legato al conflitto.

Affari d’oro
Fino al 2010 l’oro aveva un ruolo marginale nell’economia sudanese ma la crisi innescata dalla secessione del Sud Sudan nel 2011, che comportò la perdita del 75% delle riserve petrolifere e del 90% delle entrate in valuta estera, creò le condizioni per una rapida espansione del settore. Così già nel 2012, anche grazie alla scoperta di un grande giacimento nella regione di Jebel Amer, nel Darfur settentrionale, il metallo giallo arrivò a costituire il 60% delle esportazioni sudanesi, anche se il comparto era ancora in mano a tanti piccoli operatori e il materiale estratto con metodi “artigianali”.
Se il regime non riuscì mai a mettere del tutto le mani su questo settore, dopo la caduta di al-Bashir, il governo di transizione cercò di riportare le miniere sotto controllo statale e di smantellare l’influenza economica delle forze armate e dei gruppi paramilitari, sforzi che furono percepiti come minacce sia da ambienti dell’esercito che delle Rsf e che contribuirono all’insurrezione dei golpisti nel 2021. Da allora, proprio le milizie legate a Hemeti ampliarono il loro controllo sulle zone aurifere, accentuando la rivalità con le forze armate. Non sorprende quindi che, allo scoppio del conflitto nel 2023, uno dei primi obiettivi delle Rsf fu la riconquista delle miniere di Jebel Amer, precedentemente vendute allo Stato dalla al-Junaid Company di proprietà del fratello di Hemeti, e della raffineria di Khartoum, che conteneva oltre 1,6 tonnellate d’oro.
Da allora la guerra civile non ha fatto che aggravare l’opacità del settore. Secondo un rapporto pubblicato a marzo dal gruppo di esperti Onu sul Sudan, la produzione aurifera complessiva sudanese è raddoppiata durante il conflitto. All’inizio questo tesoro prende per lo più due strade diverse ma poi, spesso, si ritrova nel Golfo. Almeno il 60 per cento del metallo estratto dalle zone controllate dall’esercito di al-Burhan negli stati federati del Nord, del Nilo e del Mar Rosso, viene contrabbandato attraverso l’Egitto, dove arriva quasi un quintale d’oro sudanese al giorno, pari a oltre 60 tonnellate dall’inizio del conflitto. Soltanto l’anno scorso invece le aree controllate dalle Rsf hanno estratto più di 10 tonnellate d’oro per un valore pari ad almeno 860 milioni di dollari. Per gli uomini di Hemeti però la principale area di estrazione non è più la zona montuosa di Jebel Amer, il cui prodotto viene esportato attraverso il Ciad, ma la zona di Songo, nel Darfur meridionale, da dove il metallo giallo viene contrabbandato attraverso la Repubblica Centrafricana e il Sud Sudan fino all’Uganda. Tuttavia la destinazione finale di questo tesoro, nella maggior parte dei casi, restano sempre gli Emirati Arabi Uniti, un hub economico irrinunciabile per entrambe le parti in conflitto, che dipendono ancora per lo più dal mercato di Dubai per la compensazione delle relative transazioni finanziarie. Fondi che poi finanziano il traffico di armi e alimentano la guerra per soddisfare gli appetiti delle milizie locali, degli Stati confinanti e delle potenze regionali e globali in un circolo vizioso di oro e sangue. In nome della geopolitica.

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