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Home » Esteri

Sudan, sangue e potere: nella battaglia per Khartoum si scontrano due facce dello stesso golpe

Immagine di copertina
Credit: AP

Uno è un uomo dell’ex dittatore Bashir, l’altro un capo banda che ha fatto fortuna come mercenario. Sono saliti al potere insieme
 con un colpo di Stato e ora guidano apparati militari con forti interessi economici e potenti alleati all’estero, ma si odiano. Così i generali
 Burhan e Hemeti tengono in ostaggio il Sudan

I generali Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo conosciuto come Hemeti si somigliano più di quanto vorrebbero far credere. Insieme hanno compiuto un colpo di stato militare per impedire il ritorno dei civili al potere, guidando come presidente (Burhan) e vicepresidente (Hemeti) il Consiglio sovrano di transizione, che di fatto governa il Sudan. Entrambi sono accusati di essere coinvolti in massacri di civili e dimostranti. Tutti e due guidano apparati militari con ingenti interessi economici e potenti alleati all’estero. Eppure si odiano e ora, dopo meno di 18 mesi di condivisione del potere, sono arrivati alla resa dei conti scatenando un conflitto armato per decidere una volta per tutte chi governerà il Sudan.

Risultato? Hanno trasformato la capitale e mezzo Paese in un campo di battaglia e preso in ostaggio un popolo che, dopo 40 anni di guerra e tre decenni di dittatura, solo nel 2019 era riuscito a tornare libero per poi subire, un anno e mezzo dopo, un nuovo golpe militare (il loro). Intanto la comunità internazionale teme un ulteriore focolaio di instabilità che potrebbe coinvolgere in primis la vicina Libia, già alle prese con i suoi problemi, oltre alle potenze regionali, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, e quelle globali, come la Russia e gli Stati Uniti.

Il Darfur arriva a Khartoum
La situazione è degenerata il 15 aprile scorso, quando le Rapid Support Forces (Rsf), le milizie eredi dei famigerati Janjaweed accusati di crimini indiscriminati in Darfur e guidate da Hemeti, hanno attaccato le Sudanese Armed Forces (SAF) di Burhan, che le ha messe fuori legge. Dopo una settimana di scontri, nonostante due cessate il fuoco annunciati e mai rispettati, la capitale è diventata un campo di battaglia. «Il Darfur è arrivato a Khartoum», spiega a TPI una fonte internazionale in città, che ha chiesto di restare anonima. «Vivo in centro, a 200 metri da dove sparano regolarmente: quello che i sudanesi hanno vissuto sulla propria pelle dagli inizi degli anni 2000 ora lo vediamo nella capitale e fa paura».

In 40 anni di guerre, escluse le manifestazioni represse nel sangue, Khartoum era rimasta perlopiù esclusa dai combattimenti più gravi. Ora invece interi quartieri (non tutti) sono senza elettricità e acqua corrente, Internet va e viene, scuole, università e ospedali sono chiusi e le persone restano in casa con la paura di uscire a cercare cibo perché troppo pericoloso. «Siamo chiusi da sei giorni in una scuola: siamo in 20 tra stranieri e sudanesi, compresi sei bambini», ci ha raccontato il 20 aprile Katharina von Schroeder, direttrice ad interim delle campagne di comunicazione di Save the Children in Sudan. «I nostri colleghi sudanesi non possono tornare a casa mentre chi può cerca di lasciare la città per rifugiarsi nelle campagne circostanti perché a differenza di noi stranieri non può sperare in un’evacuazione. Ma uscire è troppo pericoloso, almeno due degli ospedali più grandi sono stati colpiti e la situazione sanitaria è critica».

Anche per mancanza di forniture. «Al Centro Salam di cardiochirurgia operiamo a regime ridotto e non facciamo più interventi perché abbiamo terminato le piastrine a causa della mancanza di donatori di sangue, che non possono spostarsi per via degli scontri», ci aveva raccontato il giorno prima Muhameda Tulumovic, direttrice del programma di Emergency in Sudan. «Qui siamo nel sud-est della città, a 15-20 chilometri dal centro di Khartoum, e i combattimenti sono meno frequenti ma ieri sera (martedì 18 aprile, ndr) gli scontri erano molto vicini». Motivo per cui l’organizzazione fondata da Gino Strada ha invece dovuto chiudere il centro pediatrico di Mayo, nel sud della capitale. «Per questioni di sicurezza, non riusciamo a raggiungerlo», ci aveva detto Tulumovic. «A Port Sudan, nello stato orientale del Mar Rosso, dove abbiamo un altro progetto, la situazione sembra al momento (19 aprile, ndr) più tranquilla. Anche il nostro ospedale pediatrico di Nyala, in South Darfur, è ancora aperto ma operiamo in modalità ridotta perché il personale non riesce a raggiungere la clinica e le forniture scarseggiano: riceviamo i casi più urgenti, li stabilizziamo e trattiamo per quanto possibile ma non riusciamo a fare di più».

«Prima degli scontri operavamo in 14 su 18 Stati sudanesi, ora però siamo meno operativi. I nostri uffici in Darfur sono stati saccheggiati e i medicinali destinati ai bambini, rubati. Ma continueremo a operare, senza aspettare la fine completa della crisi, finché le condizioni di sicurezza per i nostri operatori lo consentiranno», ci ha spiegato von Schroeder, che come tutte le nostre fonti a Khartoum conferma che i due cessate il fuoco annunciati non sono mai entrati davvero in vigore, provocando in una settimana oltre 300 morti, compresi tre operatori sudanesi del World Food Programme. «Il problema è che gli scontri avvengono molto vicino alla popolazione. Non credo che le due fazioni prendano intenzionalmente come obiettivo i civili, ma le persone restano comunque uccise o ferite perché si combatte in mezzo alla strada». 

È una tattica già vista in Darfur, usata a Khartoum proprio dalle Rsf di Hemeti, come osserva la nostra fonte internazionale. «Usano i civili come scudo per evitare che le SAF sfruttino la propria superiorità aerea: se fossero in campo aperto userebbero l’aviazione ma nella capitale non possono. Lì ci sono le famiglie dei soldati».

Signori della guerra
Ma come si è arrivati a tanto? «Dobbiamo partire dal 2019», spiega a TPI Bernardo Venturi, ricercatore associato presso l’Istituto Affari Internazionali (Iai). «Allora, nonostante la repressione violenta e grazie a movimenti molto partecipati da giovani e donne, cominciò un processo che portò alla fine della dittatura di Omar al-Bashir, che era al potere da trent’anni, verso un governo civile democratico». Ed è così che si arrivò alla firma degli accordi di pace di Juba nel 2020, con cui si tentò di mettere fine a gran parte dei conflitti civili che per decenni hanno devastato il Sudan, incluso quello in Darfur. «Tutto questo fu interrotto bruscamente dal golpe militare del 25 ottobre 2021», ricorda Venturi, riferendosi al colpo di Stato guidato proprio da Burhan, con l’appoggio di Hemeti.

Meno di un mese dopo, il 17 novembre 2021, il primo avrebbe dovuto cedere la presidenza del Consiglio di transizione a un esponente civile, mettendo a rischio l’influenza politica dei militari, che con Bashir erano al governo da 30 anni, oltre alle clientele e all’immunità di entrambi. Nessuno dei due generali voleva mettere a repentaglio le proprie fonti di potere e di ricchezza e men che mai rischiare di finire alla sbarra per i massacri compiuti in Darfur e per la strage di Khartoum del 3 giugno 2019 quando 127 manifestanti persero la vita nella brutale repressione eseguita dai militari.

L’esercito, comandato da Burhan, controlla infatti una rete di imprese che godono di ingenti esenzioni fiscali, spesso al centro di scandali di corruzione con cui – è l’accusa di diverse ong – verrebbe finanziato lo stile di vita e le pensioni di molti ufficiali di alto grado. Hemeti invece, insieme al fratello Abdelrahim Hamdan Dagalo e ai suoi due figli (nipoti del capo delle Rsf), gestirebbe un impero dell’oro. Secondo un’inchiesta di Global Witness, attraverso la società aurifera El Junaid, di proprietà dei tre parenti del generale, le sue milizie controllerebbero le miniere d’oro del Darfur. Inoltre, secondo un’inchiesta del New York Times, Hemeti avrebbe avuto anche rapporti con la Meroe Gold, società aurifera dietro cui, stando al Tesoro Usa, si celerebbe il capo della compagnia militare privata russa Wagner Group, Yevgeny Prigozhin, concessionaria della miniera d’oro di al-Ibediyya, a nord della capitale. Un patrimonio talmente cospicuo da permettere al capo delle Rsf di depositare oltre 1 miliardo di dollari presso la Banca centrale sudanese per sostenere la valuta nazionale all’indomani della crisi economica e delle proteste che portarono alla cacciata di Bashir. Allora, il generale spiegò che questi fondi arrivavano «da investimenti in oro e dagli stipendi delle truppe che combattono all’estero». Le Rsf sono state infatti coinvolte sia nella guerra in Yemen a fianco dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, che in Libia con il generale Khalifa Haftar. È questo coacervo di interessi che i due difendevano nel 2021 e che oggi li sostiene nel conflitto di potere.

Il problema però resta sempre la questione di lasciare il potere a un nuovo governo e per questo, a inizio aprile, la giunta militare avrebbe dovuto firmare un accordo con i rappresentanti delle organizzazioni della società civile, un’intesa mai raggiunta. Punto del contendere erano proprio le Rsf, il cui scioglimento con conseguente integrazione nelle forze armate ha trovato una serie di ostacoli nell’esercito. «Hemeti aveva già un ruolo politico, come vicepresidente, e con il nuovo accordo avrebbe potuto puntare anche a incarichi più rilevanti, magari alla presidenza», ci spiega Venturi. «Ha provato a giocare d’anticipo». E così lo scontro armato è esploso e ora tutto può succedere, compreso un allargamento del conflitto.

Addio transizione?
Tutto sta nella biografia dei due contendenti. Burhan è un militare di carriera che si è fatto le ossa in Darfur nei primi anni 2000, diventando comandante delle forze armate della regione nel 2008. Hemeti appartiene invece a un clan arabo originario del Ciad, da dove era fuggito negli anni Ottanta, rifugiandosi in Darfur. Qui, da capo banda, ha scalato la gerarchia delle milizie Janjaweed che dal 2003, macchiandosi di stupri di massa, genocidi e altre atrocità, appoggiavano le forze di Bashir contro i gruppi armati non arabi in un conflitto costato la vita a 300mila persone e che provocò 2,7 milioni di sfollati. Nessuno dei due è stato accusato dalla Corte penale internazionale di genocidio e crimini contro l’umanità come l’ex dittatore, attualmente recluso in Sudan in attesa dell’estradizione, ma nel tempo Burhan ha cercato di prendere le distanze da quelle atrocità, scaricando la colpa sulle milizie Janjaweed e quindi sulle Rsf di Hemeti che ne sono eredi.

«Scegliere tra l’uno e l’altro, è come chiedersi se è meglio la padella o la brace», osserva Venturi. «Puntare su un uomo forte, rischia di riportare le lancette alla dittatura di Bashir. Ma anche con uno come Hemeti, che ha devastato un’intera regione, non possiamo che aspettarci un Sudan militarizzato, discriminante verso le minoranze, violentemente repressivo e certamente non democratico, il che avrebbe anche ripercussioni a livello regionale».

Qui torna utile tornare alle biografie dei due. Uomo di Bashir, il generale Burhan si è formato in parte in Giordania ma soprattutto in Egitto dove trova i suoi principali alleati. Non a caso, pochi mesi prima del golpe del 2021, fu proprio Il Cairo a ospitare un incontro tra i due leader militari sudanesi per permettere a Burhan di scongiurare uno scontro aperto, prodottosi poi in queste settimane, che avrebbe messo a rischio il potere delle forze armate. Senza alcuna istruzione formale invece e intervenendo anche in altri teatri di guerra, Hemeti ha intessuto una serie di legami nel Golfo tra Riad e Abu Dhabi, dove ha sempre comprato tecnologia militare e per le telecomunicazioni attraverso società collegate alle Rsf e alla sua famiglia. Aveva rapporti, come rivelato da Massimo Alberizzi su Africa ExPress e come confermato dal generale stesso in un’intervista a Bbc Arabic dell’agosto scorso, persino con il nostro governo allora guidato da Mario Draghi che a Khartoum, nella prima metà del 2022, organizzò almeno un incontro tra i nostri 007 e Hemeti, che a settembre è anche venuto in Italia, allo scopo di contenere i flussi migratori in transito dal Sudan verso il Mediterraneo e quindi sulle nostro coste. Il suo partner più importante però resta la Russia, dove il generale si è recato in visita poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina discutendo con il Cremlino anche l’apertura di una base navale a Port Sudan. Un rapporto tenuto vivo soprattutto – come detto – attraverso Wagner che, stando ad alcune immagini satellitari analizzate dalla Cnn, avrebbe rifornito di armi le Rsf via Libia, un’accusa respinta da Prigozhin al portale Africa Report, secondo cui però Hemeti avrebbe chiesto “supporto aereo” ai mercenari russi. Ma, ci spiega la nostra fonte internazionale a Khartoum, il coinvolgimento russo è sopravvalutato: «È un conflitto di potere regolato da dinamiche interne e non è foraggiato da chi sponsorizza chi ma si tratta di una resa dei conti al vertice per decidere chi sarà il futuro leader».

L’ottica della guerra in Ucraina non aiuta né a comprendere quanto sta accadendo né a trovare una soluzione. «L’errore in cui non deve cadere la comunità internazionale è scegliere un cavallo su cui puntare. Non bisogna dare sponde a nessuno dei due: la soluzione dell’uomo forte, che può tentare alcuni Paesi perché promette stabilità – anche se poi dura solo pochi anni – deve essere respinta a favore di una transizione civile e democratica», conclude Venturi. «La stragrande maggioranza della popolazione – come dimostrano le manifestazioni di questi anni e il dissenso contro la giunta militare – non vuole né l’uno né l’altro».

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