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Home » Esteri

In Canada gli insulti a una donna indigena morta in ospedale riaccendono il dibattito sul razzismo

Immagine di copertina
Joyce Echaquan

La recente morte di Joyce Echaquan, la donna Atikamekw che ha filmato gli insulti razzisti subìti dagli operatori sanitari poco prima di morire in un letto d’ospedale in Québec, riporta l’opinione pubblica canadese a parlare di razzismo contro le minoranze indigene, che buona parte della politica continua a non riconoscere come sistemico

Il video pubblicato su Facebook il 28 settembre da Joyce Echaquan è la dolorosa testimonianza dei suoi ultimi momenti di vita e la denuncia di un episodio di razzismo sistemico che affligge le popolazioni indigene del Canada. La donna, che aveva 37 anni, Atikamekw (parte dell’etnia degli indiani canadesi nota come First Nations), era stata ricoverata il 26 settembre all’ospedale di Joliette, una cittadina a nord di Montreal, in Québec, a causa di forti dolori allo stomaco, per i quali le era stata somministrata della morfina, alla quale secondo la famiglia era allergica.

S&D

La donna, madre di sette figli, lo spiega nella sua lingua nativa il 28 settembre, agonizzante, poco prima di morire, in un video di sette minuti che testimonia come gli infermieri dell’ospedale, invece di dare assistenza alla donna, si rivolgano a lei dicendole di smettere “di essere così stupida”, che è “buona solo per fare sesso” e che ha fatto “delle scelte sbagliate (…). Cosa penseranno i tuoi figli, vedendoti così?”. L’infermiera e l’inserviente che hanno pronunciato queste parole sono stati licenziati e sul caso sono state aperte indagini a livello sia nazionale che provinciale, ma i risultati dell’autopsia non sono stati ancora condivisi.

“La peggior forma di razzismo” è stato il commento del premier canadese Justin Trudeau, a cui si è associato il primo ministro della provincia del Québec, François Legault. Quest’ultimo si è scusato con la famiglia di Echaquan, ma si è rifiutato di definire il Québec un territorio razzista. Eppure sono proprio le istituzioni provinciali e federali che, a partire dai primi anni di colonizzazione europea del Canada passando per l’Indian Act del 1876 fino ad arrivare alle “scuole residenziali” inaugurate qualche anno dopo, hanno normalizzato questa discriminazione razziale.

Attualmente il Canada non ammette con fermezza di avere un problema di razzismo endemico nei confronti dei suoi popoli nativi: è vero che il premier canadese Trudeau nel 2017 ha chiesto scusa per l’impatto del sistema delle scuole residenziali sulle vite di questi popoli, ed è vero anche che dopo l’ondata di proteste del Black Lives Matter, passata anche attraverso le piazze canadesi, il premier ha riconosciuto che “nelle nostre istituzioni esiste un problema di razzismo sistemico”.

Un frame del video dall’ospedale di Joyce Echaquan

Tuttavia queste ultime parole sono arrivate solo dopo che è emersa la testimonianza video del violento arresto, nel giugno scorso, di Allan Adam, capo di una comunità  nativa, costringendo anche il capo della polizia federale, Brenda Lucki, ad ammettere che “c’è effettivamente razzismo sistemico nelle istituzioni, perciò esiste anche in polizia.” E le comunità native non ripongono alcuna fiducia in Trudeau: per loro, il premier che a parole vuole riconciliare la frattura tra la società bianca e quella nativa, nei fatti promuove gli interessi delle grandi aziende che costruiscono gasdotti (nella Columbia Britannica) e case (in Ontario) sui territori abitati dalle comunità.

Carol Dubé, marito di Joyce Echaquan, durante una conferenza stampa ha affermato di essere convinto che sua moglie sia morta di “razzismo sistemico che ha contaminato l’ospedale di Joliette”: parole che trovano  riscontro in studi e report che evidenziano il carattere sistemico della discriminazione razziale sperimentata da Inuit, Métis e First Nations, i tre popoli indigeni del Canada. In particolar modo le comunità native canadesi chiedono da anni giustizia e riconoscimento di un vero e proprio genocidio culturale negli ambiti dell’educazione e dei diritti dei bambini indigeni, vittime di una politica sociale barbara che fin dagli anni ’80 del 1800 li sottraeva alle loro famiglie d’origine per inserirli nelle cosiddette scuole residenziali, istituti  per la maggior parte cattolici  e finanziati dal governo, in cui venivano educati a cancellare le loro radici culturali per “civilizzarsi”, uniformarsi alla società bianca, tra incuria e punizioni che spesso sfociavano in maltrattamenti fisici e abusi sessuali.

Qualche decennio dopo, il sistema dei servizi sociali aveva iniziato a occuparsi dei bambini aborigeni dandoli in adozione o in affidamento a famiglie bianche del Canada, degli Stati Uniti ma anche europee: una pratica così diffusa e ricorrente tra gli anni ’60 e ’80 da venire definita “sixties scoop” (“retata degli anni sessanta”) e che continua anche oggi, passando inosservata nei palazzi governativi, forse per non riconoscere il sistema che solo una class action intrapresa contro il governo federale nel 2016 ha portato alla ribalta.

Joyce Echaquan e il marito

Si stima che almeno 150.000 bambini indigeni siano passati attraverso il sistema delle scuole residenziali, di questi 3.000 sono morti durante quel periodo e molti altri hanno riportato violenze fisiche, emotive e psicologiche. Questo sistema si è estinto con la chiusura dell’ultimo istituto gestito a livello federale nel 1996, mentre è difficile tener conto a livello nazionale di quanti bambini stiano ad oggi subendo la pratica dell’affidamento forzato a famiglie bianche.

Un report del 2018 della commissione per i diritti umani dell’Ontario calcola che in quella sola provincia i bambini indigeni in affidamento siano circa il 30% del totale, nonostante rappresentino solo il 4,1% dei ragazzi di età inferiore ai 15 anni dell’Ontario, una “sovra-rappresentanza” che supera quella dei bambini neri. Ma per Doug Ford, primo ministro dell’Ontario, non si può definire questo tipo di razzismo come sistemico perché, a suo parere, non ha quelle “profondi radici storiche che ha invece il razzismo degli Stati Uniti”.

Spesso, l’eredità di queste esperienze ha avuto e ha tuttora gravi ripercussioni sulla vita dei sopravvissuti: il trauma della lontananza dalla propria famiglia o delle violenze subite nelle scuole residenziali, cioè sotto la tutela statale, e più in generale la perdita della propria identità porta a depressione, ansia, dipendenze da alcool o droga, povertà, suicidio.

Statistics Canada (l’agenzia federale di studi statistici del Canada) ha rilevato per il quinquennio 2011-2016 un tasso di suicidi tra le comunità indigene molto superiore rispetto a quello dei non-indigeni (8 decessi all’anno ogni 100.000 persone): di tre volte per i First Nations (24,3 decessi all’anno ogni 100.000 persone), di due volte per i Métis (14,7 decessi all’anno ogni 100.ooo persone) e di nove volte per gli Inuit (72,3 decessi all’anno ogni 100.000 persone). Le cause di questi numeri, secondo l’agenzia, sono da ricercare nel trauma intergenerazionale che ha condizionato i popoli nativi dall’ingresso dei primi bambini nelle scuole residenziali fino ai giorni nostri.

Un altro grande sistema sociale in cui gli indigeni canadesi sono costantemente discriminati è proprio quello sanitario. Il caso di Joyce Echaquan è estremo, ma studi come quello dei ricercatori Billie Allan e Jalen Smylie del 2015, intitolato “First Peoples, Second Class Treatment” evidenziano che la marginalizzazione e l’esclusione dei nativi canadesi dal sistema di assistenza sanitaria del paese sono forti e ricorrenti: la loro aspettativa di vita è resa più bassa di quella dei canadesi bianchi a causa delle negligenze del sistema sanitario nei loro confronti e l’accesso alle cure per loro è più complicato, con tempi di attesa notevolmente maggiori rispetto ad un paziente bianco. A questo proposito, il signor Lew Jobs, Inuit originario dei Territori del Nord-Ovest ma che vive a Edmonton con la famiglia, ha raccontato a TPI il calvario attraverso cui è dovuta passare la madre prima di poter fare un esame di accertamento per un tumore.

“Mia madre vive nella frazione artica di Tuktoyaktuk. Quando, qualche anno fa, ha iniziato a sentire dolore al petto e a perdere peso, si è recata nell’unica, piccola, struttura medica vicino casa. Lassù i medici sono disponibili solo una volta al mese e solo su appuntamento, ma a mia madre le infermiere continuavano a non fissarlo: nonostante i sintomi evidenti, il sistema sanitario non voleva credere che stesse davvero male”.

“Sono trascorsi due lunghi anni con in mezzo una mia minaccia di agire per vie legali, prima che mia madre riuscisse a vedere un medico. Accertato il bisogno di approfondire la sua condizione medica, si è recata all’ospedale più vicino, nella città di Inuvuk, che è a circa 3 ore di macchina a sud di Tuktoyaktuk. Lì dalla radiografia hanno scoperto una massa tumorale nel polmone di ormai 10 centimetri, che avrebbe potuto essere molto più piccola se fosse stata presa sul serio fin da subito”.

“Per iniziare le cure è stata indirizzata all’ospedale regionale di Yellowknife, la capitale dei Territori del Nord-Ovest, a 4 ore di volo a sud di Inuvik, ma una volta arrivata lì le hanno detto che c’era un numero limitato di trattamenti oncologici disponibili, così le hanno consigliato di rivolgersi al Cross Cancer Institute di Edmonton, la città in cui vivo. Ma ormai ha un cancro allo stadio 4, terminale: ora è a casa, a Tuktoyaktuk, praticamente in attesa di morire. Probabilmente non starei dicendo questo, se le infermiere della struttura vicino casa avessero creduto fin da subito che stava davvero male”.

Il doloroso raffronto che, però, il signor Jobs ha potuto fare, è stato quello tra il trattamento che ha avuto sua madre e quello che ha invece avuto sua moglie: donna bianca, tedesca, anche a lei era stato suggerito di sottoporsi a esami medici più specifici per una sospetta presenza di massa tumorale, qualche tempo dopo l’inizio del calvario della suocera. “Mia moglie ha il medico di famiglia a Edmonton, a 30 minuti di macchina da dove viviamo. Lui l’ha mandata a fare degli esami mirati non appena hanno pensato che ci fosse una remota possibilità che potesse avere il cancro. L’intero processo per lei è durato circa 8 settimane. Per fortuna è risultata negativa al test, ma se avesse avuto il cancro sarebbe stato scoperto in stadi molto precoci e naturalmente c’è una probabilità significativamente maggiore di sconfiggerlo in quella fase.”

L’opinione pubblica canadese in larga parte è inconsapevole dell’esistenza di queste dinamiche che discriminano i popoli aborigeni, se ciò accade è anche a causa degli ostacoli che si trova davanti la stampa indipendente nel diffondere informazioni a riguardo. Come per chi si occupa di un qualsiasi tema scomodo, anche i reporter che informano sulle questioni dei nativi canadesi subiscono intimidazioni fino all’arresto, come ha raccontato a TPI Karl Dockstader, giornalista freelance e indigeno arrestato il 2 settembre mentre seguiva le proteste degli attivisti del popolo Haudenosaunee al 1492 Back Land Lane, un loro territorio in Ontario che vogliono salvare da speculazione edilizia.

“Sono stato contattato via e-mail il primo settembre da un agente di polizia che voleva parlare con me, quando l’ho ricontattato mi hanno avvertito che avrei avuto a carico due accuse penali. Ho detto loro che ero un giornalista, ma mi hanno risposto che avrei potuto presentarne le prove quando li avrei incontrati. Il giorno dopo sono stato arrestato, insieme alle colleghe, anche loro indigene, Starla Myers di Real Peoples Media, e Courtney Skye”.

Le accuse nei confronti delle due giornaliste sono poi state ritirate, mentre Karl dovrà subire un processo con l’accusa di atti vandalici e violazione di un’ingiunzione del tribunale. Dockstader continua: “Non credo che un giornalista bianco che si occupava della storia sarebbe stato arrestato. Penso che sia facile vedere che c’è uno schema secondo cui la polizia criminalizza gli indigeni in generale. In questo caso e nel caso dell’opposizione al Coastal Gas Link (il gasdotto in costruzione su territorio indigeno in British Columbia, ndr) c’è uno schema di polizia che agisce come strumento di interessi privati aziendali. Questo va chiaramente contro gli indigeni”.

Proprio riguardo al Coastal Gas Link, è stata un’inchiesta di un media non canadese, il Guardian, a rivelare che la polizia nazionale del Canada aveva pronto un piano di repressione violenta, che prevedeva anche di sparare agli indigeni del villaggio Wet’suwet’en se avessero continuato ad opporre resistenza con proteste e blocchi stradali alla costruzione del gasdotto.

“I media canadesi sono tarati sullo status quo, che favorisce gli uomini bianchi cis-gender ricchi. Il pubblico suppone che noi siamo narratori della verità, ma la verità è relativa alla nostra posizione dentro l’industria mediatica. La nostra emittente statale e le grandi società di informazione a scopo di lucro creano un certo tipo di notizie raccontate da un certo tipo di persone e non stanno adempiendo al loro dovere di portare informazioni reali al pubblico. Io e il mio amico e co-conduttore radiofonico Sean Vanderklis, come piccola organizzazione mediatica privata, abbiamo pensato di poter fornire qualcosa di un po’ diverso nel panorama informativo, ma la polizia apparentemente non è d’accordo e ora devo andare in tribunale solo perché volevo raccontare una storia”.

Il Canada ha realmente un problema di razzismo nei confronti dei suoi abitanti nativi. Un problema che ha cercato in ogni modo di non affrontare, ma che è cascato sull’opinione pubblica del paese come un fulmine a ciel sereno con la morte di Joyce Echaquan.

Leggi anche: Quali sono e dove vivono le tribù indigene incontattate

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