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Home » Esteri

Brexit, tutte le partite che restano aperte tra Ue e Regno Unito

Immagine di copertina
Credit: Pixabay

Brexit, tutte le partite che restano aperte tra Ue e Regno Unito

Da oggi, 31 gennaio 2020, comincia per il Regno Unito un complicato e laborioso periodo di transizione che, in base a una norma proposta dal governo conservatore di Boris Johnson e approvata dal Parlamento di Westminster, dovrebbe concludersi entro quest’anno con l’entrata in vigore dell’accordo con l’Ue sulle nuove relazioni bilaterali.

S&D

Un calendario oltremodo ambizioso: in soli 11 mesi si dovrebbe completare non solo il negoziato, ma anche il processo di ratifica. In questo periodo il Regno Unito rimarrà nell’unione doganale e nel mercato unico. Le relazioni commerciali con i paesi Ue non cambieranno: beni e servizi continueranno a circolare liberamente da e verso il continente.

Il Regno Unito dovrà inoltre continuare a seguire le regole dell’Ue, a rispettare le sentenze della Corte di giustizia europea e a contribuire al bilancio comunitario. Non sarà però più rappresentato, e quindi non avrà più diritto di voto, nelle istituzioni europee. Si troverà pertanto in una posizione scomoda, poiché sarà tenuto ad applicare norme e regole su cui non avrà più voce in capitolo. Subirà, paradossalmente, una perdita di sovranità, benché transitoria, laddove l’obiettivo fondamentale dei fautori della Brexit è rimpatriare, quanto prima, i poteri trasferiti all’Unione.

Non stupisce quindi che il governo britannico voglia accorciare il più possibile questo limbo temporale. Che poi riesca a vincere questa corsa contro il tempo è tutto da vedere. Londra punta a un trattato di libero scambio con Bruxelles che preveda “zero dazi e zero quote”, ma esclude un adeguamento normativo che continuerebbe a tenerla ancorata al sistema legale dell’Unione e complicherebbe la stipula di accordi di liberalizzazione commerciale con altri paesi. L’obiettivo dichiarato di Johnson è di rafforzare la “dimensione globale” della politica economica britannica.

L’Ue, dal canto suo, si dice pronta a lavorare a un accordo “ambizioso”, ma solo a patto che siano garantite parità di condizioni, inclusa una convergenza normativa in ambiti come l’ambiente, gli aiuti di Stato, e i diritti dei lavoratori. Trovare la quadra tra posizioni così divergenti sarà impresa non da poco.

In linea generale, ci si può aspettare che, quanto maggiori saranno le concessioni di Londra in ambito normativo, tanto più disponibile sarà Bruxelles a escludere tariffe e quote. In particolare, nel caso di nuovi prodotti con standard elevati, fra cui quelli tecnologicamente avanzati, le imprese esportatrici britanniche dovranno ottenere l’approvazione dei regolatori Ue. Inoltre, per esportare nell’Ue, dovranno rispettare le regole d’origine (rules of origin), dimostrando che le merci destinate al mercato Ue sono state effettivamente prodotte in Regno Unito.

Ciò richiederà, fra l’altro, una serie di adempimenti procedurali e burocratici. Si consideri che le catene di fornitura (supply chains) tra il Regno Unito e i paesi Ue sono oggi fortemente interconnesse e sarà pertanto tutt’altro che facile raggiungere un accordo per stabilire la provenienza dei prodotti dell’interscambio.

Le due parti si sono impegnate a ridurre e semplificare il più possibile gli oneri e le formalità doganali e amministrative, che però, presumibilmente, avranno, in alcuni settori, un peso non indifferente.  Per esempio, per i prodotti di origine animale gli esportatori britannici dovranno essere in grado di esibire adeguati certificati sanitari e saranno sottoposti a regolari ispezioni veterinarie. Solo per i prodotti a più basso rischio basteranno delle autocertificazioni, come accade con altri partner commerciali dell’Ue.

Un problema particolarmente spinoso è la richiesta di alcuni paesi Ue, come la Danimarca, la Francia, i Paesi Bassi e la Spagna, di mantenere diritti di pesca nei mari del Regno Unito poiché Johnson ha promesso ai pescatori piena sovranità sulle acque territoriali.

Anche dopo l’uscita del Regno Unito dal mercato unico, le società di servizi britanniche non dovrebbero incontrare ostacoli a mantenere o creare filiali all’interno dell’Ue. La fornitura di servizi dal Regno Unito diverrà invece più difficile; potrebbe pertanto verificarsi uno spostamento degli investimenti in questo settore verso i paesi Ue.

L’accordo di libero scambio dovrà regolare, in particolare, il delicato settore dei servizi finanziari, un settore di punta dell’economica britannica. Fuori dal mercato unico, il Regno Unito non beneficerà più del cosiddetto “passaporto finanziario” che ha consentito finora alle sue compagnie finanziarie di vendere liberamente i propri servizi nell’area Ue. Il danno per il settore finanziario britannico potrebbe essere considerevole. L’Ue si è impegnata però a valutare, entro il 2020, se riconoscere l’equivalenza delle norme di regolazione del sistema finanziario con le proprie.

In generale, è nell’interesse dei membri Ue garantire la continuità nel commercio dei prodotti finanziari; è pertanto probabile che Bruxelles assuma al riguardo una posizione negoziale flessibile. Anche in questo settore, come in altri, l’accordo prevedrà probabilmente periodi transitori, che ne consentirebbero un’applicazione graduale.

Le due parti dovranno inoltre concordare regole in una serie di altri settori, come la condivisione e la sicurezza dei dati personali, gli standard per la sicurezza aerea e il riconoscimento delle qualifiche professionali. Il Regno Unito rimarrà interessato a partecipare ad alcuni programmi comunitari, ma anche in questi casi un’intesa non è scontata.

Ha suscitato molte critiche il rifiuto del governo di impegnarsi sin da ora a proseguire la partecipazione in Erasmus, anche se poi Londra ha ribadito che questo è uno dei programmi Ue in cui vorrà continuare ad essere inclusa.

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