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Dario Fabbri: “Chi scappa dall’Afghanistan è una minoranza. Le tribù hanno scelto i talebani”

Immagine di copertina
Talebani di guardia durante la cerimonia di liberazione dei prigionieri politici dal carcere di Kandahar il 24 August 2021, dopo l'amnistia generale annunciata dal gruppo islamico. Credits: EPA/STRINGER

"Crollo dell'Impero? Sono stati gli Usa a volere i talebani al comando. Ma all'Isis non va bene e attacca": intervista a Dario Fabbri, consigliere scientifico e responsabile per gli Stati Uniti di Limes

I drammatici attentati compiuti ieri dallo Stato Islamico del Khorasan (Isis-K) fuori dall’aeroporto di Kabul, in cui almeno 90 persone hanno perso la vita, hanno reso ancora più grave e complessa una situazione già tragica. TPI ne ha parlato con Dario Fabbri, consigliere scientifico e responsabile per gli Stati Uniti di Limes.

Qual era l’obiettivo dei terroristi dell’Isis-k, che messaggio volevano inviare e a chi attraverso gli attentati?

Gli obiettivi e i messaggi erano molteplici. Il gruppo Stato Islamico specialmente in Afghanistan non è prioritario, sono nella fase in cui cercano di aumentare la loro rilevanza. Niente di meglio che uccidere militari americani, che nella mentalità jihadista rappresentano un trofeo. Accreditarsi nei confronti della comunità fondamentalista locale, e anche nella umma islamica, rappresentandosi come coloro che combattono il satana americano a differenza dei talebani che invece ci fanno gli accordi. Il primo movente è questo, una questione di marchio per rilanciare se stessi.

L’altro obiettivo è quello di creare problemi ai talebani, che sono i nuovi padroni più o meno dell’Afghanistan – vedremo poi quanto reggerà – e sono avversari. Hanno pessimi rapporti perché i talebani sono vicini ad Al Qaeda e ovviamente questo tipo di attentato ha l’obiettivo di dimostrare che non sarebbero in grado di garantire la sicurezza. Infatti la prima cosa che hanno detto i talebani dopo l’attentato è che a garantire la sicurezza in quella parte dell’aeroporto dovevano essere gli americani.

E rispetto agli Stati Uniti?

Il terzo obiettivo che possono avere in questo caso i combattenti dell’Isis è proprio quello di allungare il periodo di presenza degli Usa nel territorio, sfruttando la natura violenta del popolo americano, che in momento come questo, in piena continenza emotiva, può pretendere una reazione militare dal Pentagono. Questo per lo Stato Islamico sarebbe un obiettivo raggiunto: i talebani vogliono che gli Usa se ne vadano, l’Isis vorrebbe che rimanessero, perché rimarrebbero bersagli e creerebbero problemi alla narrazione talebana dei nuovi padroni del Paese. Ma se gli americani sono ancora presenti questo non è possibile.

L’attentato cade come un macigno sull’immagine e reputazione di Biden. Ha detto di aver sconfitto il terrorismo, ieri di fatto c’è stato un nuovo attentato (anche se non di Al Qaeda) in cui almeno 13 americani sono morti. È il marchio definitivo di questo totale fallimento?

Il fallimento era già totale ed è difficile presentarlo come qualcosa di diverso. Il fatto che si possa dire di aver sconfitto il terrorismo è una follia: non hai sconfitto niente, tanto che ieri c’è stato un attentato oltre il drammatico all’aeroporto di Kabul. “The war on terror”, come l’hanno denominata 20 anni fa, non esiste. Il terrorismo non è un soggetto e nemmeno un’ideologia, è una tattica paramilitare applicata da un soggetto, e la guerra si fa al soggetto, indipendentemente dalla tattica che utilizza. Nel momento in cui si fa la guerra ad una tattica è perché non si sa cosa si sta facendo, oppure perché é utile. 20 anni fa nell’immaginario degli apparati statunitensi era utile perché serviva in una fase di piena ubris.

Serviva perseguire azioni in qualunque luogo del mondo senza giustificazioni particolari. Che vai a fare nel Paese? Combatto il terrorismo. Il problema è che questo ha provocato un pieno danno tattico, che in queste ore si sta irradiando nel mondo con un’evacuazione goffa e drammatica che non ha effetti strategici ma tattici sulla loro traiettoria. Chi guarda le scene in queste ore ha l’impressione di essere in una specie di collasso dell’Impero, ma questo non avrà nessun effetto sulla traiettoria americana.

E su Biden?

Il problema invece per lui è grave: è stato eletto arrivando alla Casa Bianca dicendo di essere un buono, diverso da Trump, a favore dei diritti umani e la democrazia – e in parte ci ha creduto – e poi ha lasciato il Paese ai talebani in questo modo: è difficile credere a tutto quello che ha detto fino a ieri.

La responsabilità è solo sua? Cosa avrebbe potuto fare di diverso?

Pochissimo, ma perché la responsabilità dei presidenti americani è sempre pochissima. In Italia vediamo il leader degli Stati Uniti come un imperatore, ma i suoi poteri sono sbiaditi, il presidente è l’immagine della Nazione, sembra un grande decisore ma non decide pienamente fino in fondo. Nel caso specifico l’accordo è stato raggiunto in Qatar da Trump, anche in questo caso dai tecnici degli apparati anche se ovviamente il presidente era d’accordo. Quello che Biden poteva fare di diverso nel caso specifico era come sempre seguire più da vicino la situazione, di cui evidentemente si è occupato da vicino solo a partire da ferragosto. Si è affidato ai suoi apparati, ma questi hanno mostrato uno stile anglosassone, che in un contesto afghano è un problema.

Cosa significa?

I talebani hanno detto chiaramente all’intelligence americana che ci avrebbero messo cinque mesi, un anno, a riprendere il controllo del Paese. Loro erano convinti di parlare con gentlemen formati nelle scuole inglesi e hanno pensato: sarà così, anche perché nella fase negoziale in Qatar si sono dimostrati affidabili. Il punto è che i talebani hanno fatto il loro mestiere e hanno pensato che se non avessero preso il Paese prima di quanto annunciato gli Stati Uniti sarebbero potuti rimanere un altro anno, avrebbero potuto cambiare idea. Per questo si sono sbrigati imponendo il fatto compiuto attraverso ramificazioni claniche e un po’ di corruzione. Gli americani hanno scoperto che sono più furbi di loro e si sono ritrovati a dover organizzare evacuazione quasi biblica in poche settimane e questo è molto grave.

Ma è stato un errore dar loro credito sul piano internazionale? Trump ha scarcerato i comandanti per fare gli accordi a Doha. 

Sì ma bisogna vedere che cosa si intende per errore. Agli americani che i talebani governino il Paese o dominino non dispiace mica. Per ora dell’Afghanistan non gli interessa niente. Il loro interesse è che il caos afghano si trasformi in pakistano, perché il Pakistan rappresenta uno snodo cruciale sulle nuove vie della seta, ed il porto di Gwadar è uno dei modi che la Cina si immagina per evitare lo stretto di Malacca controllato dagli americani nella giugulare cinese. Se il caos toccasse quel porto a causa dei talebani agli americani non dispiacerebbe per niente. I talebani sono stati investiti di quel ruolo dagli americani, i pakistani li hanno creati, i russi se li prendono per quello che sono, i cinesi hanno stretto accordi separati, anche i turchi, con cui si sono conosciuti e amati in Qatar durante il negoziato. L’esercito afghano sapeva tutto questo ed è la ragione principale per cui si è dileguato: il Paese doveva tornare ai talebani. Allora si sono chiesti: perché combattere? E non hanno combattuto.

In una recente intervista ha parlato di come in realtà nessun regime può esistere senza un certo consenso tra la popolazione. Una parte della popolazione che il governo creato dagli Usa ha alienato è rimasta fedele ai talebani per tutto questo tempo?

Si racconta l’Afghanistan come se stessimo parlando della Francia, che è la tragedia della politologia: applicare gli stessi parametri a tutti i è contesti. I politologi sono convinti che quando i conti non tornano la colpa è del contesto, e non del parametro. Non esiste uno Stato afghano, non esiste un individuo afghano. Quelli che conosciamo sono coloro che hanno avuto maggior accesso e esposizione alla presenza americana in questi anni e quindi hanno sviluppato condizioni di vita estranee al resto della popolazione. La stragrande maggioranza vive attraverso clan e tribù, sopra alle quali c’è l’etnia. Ci sono elementi di intermediazione tra individuo e istituzioni che sono sempre presenti.

Cosa è accaduto in pratica?

I capi tribù che hanno dato nuovamente fiducia ai talebani lo hanno fatto non perché innamorati di loro, ma perché quando devono scegliere tra un regime pashtun (sebbene incarnato dai talebani) e un regime filo occidentale impiantato dagli americani non hanno mai dubbi. Conta la decisione dei capi tribù e purtroppo non quella del singolo individuo, per non parlare delle donne che sono sotto il singolo individuo maschio. I talebani hanno sempre fatto la stessa cosa: il capo tribù ha annunciato alle truppe afghane dell’esercito che stavano tornando i talebani e che si sarebbero schierati con loro, e loro hanno deposto le armi. L’elemento tribale e di clan è sempre prioritario e sopra questo c’è la parte etnica. Questo è il consenso dei talebani tra la popolazione afghana se vogliamo definirlo tale, che non è come l’opinione pubblica, ma legato alla struttura stessa della società.

Allora perché le persone adesso vogliono scappare?

Quello che si vede e si sente in queste ore davanti all’aeroporto di Kabul ci sconvolge, ma le persone che vediamo hanno avuto quasi tutte contatti con l’amministrazione precedente oppure sono state esposte alla cultura occidentale. Se andiamo a vedere la fedeltà tribale che rimane nel resto del Paese il discorso purtroppo cambia molto.

L’attentato di ieri e il ritorno dei fondamentalisti islamici al comando di un Paese sono una minaccia per noi?

I talebani non hanno mai immaginato di rendersi avanguardia di uno Stato islamico che domini il mondo, sono sempre stati molto realisti su questo. Appoggiavano al Qaeda ai tempi di Bin Laden perché avevano bisogno dei fondi che arrivavano da quel mondo, non escludo che potranno farlo ancora. Sono una minaccia in questo senso: non siamo davanti a filosofi illuministi, sono in lotta con lo Stato Islamico per ragioni di marchio e di controllo di quella galassia. Hanno molte fazioni, qualcuno sostiene che ieri una fazione contraria abbia aiutato l’Isis negli attentati. Tutto è possibile, non hanno lo jihadismo come elemento vitale della loro azione ma ci hanno insegnato nel tempo che per ragione di marchio e di fondi sono disposti a dare spazio a chiunque.

L’11 settembre cade l’anniversario dell’attentato alla Torri Gemelle. Biden sognava di poter dire in quell’occasione di aver sconfitto i talebani. Ma è accaduto il contrario. C’è qualcosa che può ancora fare per ricucire lo strappo con l’opinione pubblica?

Se accadesse tra quattro o cinque mesi, in quel caso avrebbe più tempo. Biden potrebbe dire: “è stato un disastro, ma avevamo promesso che vi avremmo portato fuori dall’Afghanistan e questo l’ho realizzato, male ma l’ho realizzato”. Adesso a due settimane dall’11 settembre è difficilissimo, e i prossimi giorni saranno segnati da altri momenti drammatici. Il tempo è talmente breve che per raccontare tutto questo come mission accomplished ci vuole una fantasia che un uomo di quell’età e chiaramente in difficoltà anche fisica in questo momento non ha. Non si può invertire la narrazione in così breve tempo.

 

 

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