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Home » Economia

“Io che ho conosciuto Draghi vi dico che è un neoliberista, la sua politica economica oggi non basta più”

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Intervista all'economista Giulio Sapelli: "Draghi lo conosco dai tempi del Cda di Eni, durante le riunioni mi passava bigliettini con consigli sulla dieta calorica. Il Quantitative Easing? Servì solo a salvare le banche, ora non basta più. Il premier è un neoliberista legato agli Usa: infatti sta cercando di rompere con la Cina e frena la Germania. Merkel con l'austerity ha distrutto l'Europa, ma il tempo dei rigoristi è finito. Il nostro futuro è in Africa: abbiamo bisogno di un accordo con Macron. E vi racconto di quando Salvini era un mio studente, intelligente ma incostante"

Professor Sapelli, vorrei parlare con lei dell’Italia e della partita del dopo-Covid in Europa.
(Sorride). “Le servirà qualche oretta”.
Perché la partita è complessa?
“Molto. Siamo ad un passaggio di epoca. Questo governo dovrà gestire un cambio di paradigma”.

Da quando conosce Draghi?
“Da molto tempo, ma sempre in occasioni istituzionali. Sono stato insieme con lui per anni – pensi – nel consiglio di amministrazione dell’Eni”.
In che fase?
“Quando Draghi era direttore generale del Tesoro”.

E c’era anche tempo per conoscersi in quelle convocazioni rituali?
“Eravamo seduti vicini: ed è un uomo che ti può stupire”.
Perché?
“Durante seriorissime riunioni sul bilancio o sugli investimenti, mi mandava dei biglietti di carta. Io all’inizio pensavo fossero delle indiscrezioni, dei commenti su quel che si diceva”.

E invece?
“Mi stava facendo scoprire le diete ipocaloriche”.
Cioè?
“Mi passava un foglietto, lo aprivo, e trovavo annotati a penna, con la sua grafia, gli estremi della dieta, la quantità di calorie, i cibi, eccetera”.
E poi?
“L’ho ritrovato, con il suo fido Roberto Ulissi, quando ero commissario governativo alla Fondazione Montepaschi e abbiamo rifatto insieme lo Statuto. Una guerra punica fa”.

Lei ha detto che non bisogna mitizzare il Quantitative Easing.
“Ed è la verità. Non è stato una politica keynesiana, come prova a dire qualcuno, perché non poteva esserlo”.
E cosa è stato, allora?
“Una leva economica sul credito. Il Quantitive Easing – date le regole della Bce – non poteva che esercitarsi in un unico modo: l’acquisto dei titoli pubblici. Non è una politica economica”.

E che giudizio ne da, oggi?
“Il Qe ha rappresentato un formidabile strumento di credito rivolto agli istituti di credito. Altrimenti sarebbero tutti saltati per aria, con le conseguenze che sappiamo”.

Oggi lei dice: per uscire dalla depressione del Covid servirebbe molto di più.
“Ho solo detto una semplice ed inconfutabile verità”.
Insomma.
“Lo dico con persone molto più importanti di me: con Giovanni Bazoli, Giulio Tremonti e Ferruccio De Bertoli ho sostenuto che oggi servirebbe un grande prestito della ricostruzione”.

Qualcuno chiede un nuovo Piano Marshall.
“Per carità. Dire questo significa parlare con ignoranza storica e storiografica. Il Piano Marshall è l’espressione di una volontà di controllo economico, è un progetto figlio di una guerra”.
La sento algido.
“Non è minimamente uno strumento replicabile nelle condizioni di oggi”.

E cos’è invece un prestito per la ricostruzione?
“Un grande strumento di rilancio economico: classico, universale e keynesiano. Serve una enorme iniezione di capitali nelle economie occidentali, per farle ripartire”.
E invece Schauble e i tedeschi chiedono il ritorno al rigore.
“Ehhhh…. Questi sono gli ultimi, orribili lasciti ideologici dell’età merkeliana”.
Prego?
“Ha capito benissimo”.

Lei non fa complimenti, vero?
“Ma cosa si può pensare di una signora che ha iniziato la propria carriera denunciando il suo maestro politico? Dai…”.
Sta parlando del cancelliere tedesco che tutti acclamano come la madrina dell’Europa?
“E di chi sennò? Della Merkel. Speriamo di liberarcene presto”.

Ogni volta che intervisto Giulio Sapelli rimpiango i giorni in cui stava per diventare presidente del Consiglio del governo gialloverde. Se non altro perché sarebbe stato spettacolare vedere alla prova di un governo della Seconda Repubblica uno degli intellettuali più eretici della Prima.

Economista, ex direttore della Fondazione Feltrinelli, ex consigliere di amministrazione dell’Eni, ex amministratore di società, ex funzionario della Cgil, ex intellettuale organico della Cisl, Sapelli ti spiazza sempre con la sua “visione” e il suo gusto per la provocazione intellettuale.

Professor Sapelli, lei da che famiglia viene?
“Vengo dal basso, e ne sono orgoglioso. Mio padre era rimasto orfano a due anni. Aveva fatto la guerra d’Africa, e nel dopoguerra lavorava come operaio fotoincisore”.
Orfano?
“Esatto. Perché mio nonno, ferroviere, iscritto al Partito Popolare di Don Sturzo, era morto giovane nel 1922”.

Morte naturale?
“Per nulla. Era stato picchiato da una squadraccia fascista e gettato da un treno”.
E sua nonna invece?
“Faceva la dama di compagnia dei conti Conzani. Curiosa la vita, no?”.

In che senso?
“Dopo la guerra si ritrovò la pensione dei martiri antifascisti e questo le cambio la vita”.
Fece studiare suo padre grazie alla pensione?
“Papà aveva fatto l’avviamento professionale. E i miei avevano deliberato che io lo seguissi”.

Quindi andò a lavorare presto.
“Uhhhh! A 15 anni: perito grafico e fotografico, anche io. Ma poi come un colpo di scena incredibile”.
Quale?
“Don Rossi, un sacerdote che mi conosceva bene, andò a parlare con mio padre e gli disse: ‘Il ragazzo ha delle qualità, fatelo studiare'”.

E lui accettò il consiglio?
“Sì, e gli costò non poco. Litigò con mia madre, che era siciliana. Mi mandarono nell’altra stanza mentre si decideva la mia vita”.
Ovviamente lei sentiva tutto.
“Tutto. Lei gli diceva: ‘No, deve fare l’operaio sennò si monta la testa!'”.

Incredibile.
“In quelle case popolari di Torino, di Via Sant’Anselmo 18, i muri erano di carta velina”.
Si poteva origliare?
“Era scontato. Condividevamo il bagno – che ovviamente era in balcone – con il signor Marengo, il nostro vicino. Non potevano esserci segreti”.

E alla fine chi vinse tra i due?
“Il clero. Ovvero Don Rossi: si dedicò alla mia preparazione, mi diede ripetizioni, e io superai, ovviamente da privatista, le medie”.
In un solo anno?
“Sì. In quello successivo presi il diploma magistrale. E nel frattempo, ovviamente, lavoravo”.
Incredibile.
“Lo so. Erano altri tempi. C’erano altre motivazioni”.

L’ascensore sociale esisteva davvero?
“Per me sì. Ne sono la prova. Diventai anche un militante comunista. Nel 1970 mi laureai in Storia Moderna, e con il massimo dei voti e la dignità di stampa”.
E poi?
“Avevo un solo problema: la balbuzie, che mi tormentava”.

Balbuziente, cattolico e comunista?
“Tutte e tre le cose. Prima di iscrivermi alla Fgci (Federazione Giovani Comunisti Italiani, ndr) mi ero rivolto, pieno di timore, al cardinal Pellegrino per sapere se potevo prendere la tessera”.
E cosa le rispose? Immagino un No.
“Macché!! Mi diede il nulla osta!”.

Possibile?
“Mi disse: ‘Domenica ti sei comunicato?’. Gli risposi di sì. E lui: ‘Allora iscriviti dove vuoi’. Nel 1965, seguendo il cursus honorum di partito, diventai funzionario della Fiom-Cgil”.

Ma la sua vita cambiò, ancora una volta, nel 1966.
“Eccome! Venni assunto in Olivetti. Pensavo di fare un salto epocale. Invece, appena arrivato, l’ingegner Felicioli mi mandò a contare le schede perforate”.
Una breve iniziazione?
“Per sei mesi”.

Fu un dramma?
“Anzi. Fu una grande scuola. Impegno serietà e umiltà. Ero molto bravo in matematica, in breve passai alle statistiche”.
E il sindacato?
“Una grande scuola di vita, anche quella, con maestri del calibro di Emilio Pugno e Sergio Garavini. Il quale, un giorno, mi restituì anche la parola”.

In senso metaforico?
“No, letterale. Durante una affollata assemblea di quadri, ad una mia raffica di frasi mozze e balbettii la sala era esplosa a ridere. Una umiliazione terribile. Mi sentivo morto”.
Ti credo. E cosa successe?
“Mi fermai, pietrificato. Si alzò Garavini e disse: ‘Da ora in poi il primo che ride avrà a che fare con me’. Non era gente che sprecava parole”.

E lei?
“Ripresi il mio discorso. Non mi fermai mai. E non ho mai più tartagliato per tutta la vita!”.
Impossibile.
“Oggi me la spiego così: mia madre non aveva mai creduto in me, marchiandomi con una insicurezza esistenziale. E Garavini, credendo in me, me l’aveva cancellata”.

E all’Olivetti poi che successe?
“Un giorno Franco Momigliano, capo del personale, disse: ‘Chi di voi parla inglese? Devo andare in Giappone’”.
Immagino che tutti avessero risposto “Sì”.
“Invece no. Erano economisti, parlavano, a quel tempo, francese e tedesco. Io invece, grazie all’inglese, viaggiai con lui e da allora strinsi un rapporto bellissimo”.

Tutto senza abbandonare l’università?
“Studiavo con Castronovo, Quazza e Salvadori, a cui ho dedicato un libro. Diventai contrattista. Finché non mi nominarono direttore del Gramsci”.
In quel periodo lei stringe rapporti con Saverio Vertone, Giuliano Ferrara…
“Di cui diventai amico. Nel 1980 firmai con lui il famoso documento in cui invitavamo gli operai a denunciare i brigatisti: ci arrivarono insulti di ogni tipo e minacce di morte”.

Ve ne andaste entrambi dal Pci.
“È vero. Ma per motivi diversi. La mia anima cattolica entrò in fibrillazione sul divorzio. Quando il Pci sostenne anche l’aborto non mi sentii più a casa mia”.
Nel 1980 cambiò anche lavoro.
“Diventai direttore della Fondazione Feltrinelli per lascito… ereditario”.
Ovvero?
“Il professor Del Bo morendo lasciò scritto in una lettera alla moglie: ‘Il mio erede deve essere Sapelli’. Ci resterò fino al 2000”.

Si dedicò agli “Annali”.
“E in quegli anni strinsi rapporti intellettuali importantissimi con Giuliano Procacci, con Leo Valiani, che collaborava a Mediobanca, e conobbi bene Cuccia”.

Cuccia?
“Tutti i sabati mattina passava alla Libreria Feltrinelli in Via Manzoni. Mi regalò i famosi taccuini, ascoltava molto, parlava pochissimo, mi interrogava a raffica”.
Di cosa?
“Mi raccontava di Beneduce e dell’Iri. Mi spiegò perché era convinto che ‘in Italia l’unica possibilità era far esistere il capitalismo senza capitali'”.

Si avvicinò alla Cisl.
“Entrai nella Fondazione Giulio Pastore sotto la guida del professor Saba”.
Come mai?
“Ero disgustato dai gruppuscoli, ho conosciuto troppi ragazzetti in cachemire che svaligiavano le armerie e andavano a sparare. Non tolleravo i cortei impegnati inneggianti a Stalin e Mao. Erano quei tempi”.

Lei era stato amendoliano. Ma anche trotzkista e bordighista.
“Cose complicate da spiegare oggi. Ero compiutamente socialdemocratico e anti-estremista. Io gli studenti del Sessantotto li avrei fatto picchiare dagli operai della Fiat”.

Lei ha insegnato in tutto il mondo.
“Avevo la cattedra a Trieste. Sono stato fellow alla London School in Inghilterra, professore all’Ecole des Hautes Etudes in Francia e poi ho girato il mondo sino in Nuova Zelanda”.

Ma poi entrò all’Eni.
“Dal 1975 collaboravo come consulente e formatore con l’Eni grazie a Luciano Gallino. Poi nel 2002 entrai nel Consiglio di amministrazione, chiamato da Vincenzo Visco e dal professor Umberto Colombo”.

E cosa votava in quegli anni?
“Pci finché fui iscritto, sino al 1984. Dopo non ho più votato. Ma diventai intellettuale organico della Cisl”.

Anche l’Eni era un mondo complesso.
“Strinsi rapporti di amicizia e stima professionale con Federico Caffé, con Giuliano Amato , con Gino Giugni, con Paolo Sylos Labini e soprattutto con Paolo Quarantelli, Marcello Colitti, Francesco Forlenza, Vittorio Mincato”.
E, come abbiamo visto, conobbe Draghi.
“Esatto. Grandi finestre sul mondo di allora”.

E poi si ritrovò commissario di Montepaschi di Siena.
“Una bella rogna. Il sindaco Piccini voleva governare lui la banca e mettermi in minoranza”.
E lei?
“Mi alleai con l’unico soggetto forte che lui non poteva influenzare.
Quale?
“L’arcivescovo!”.

Ah ah ah. Alleanza spirituale.
“No, no, materiale. La Curia aveva un posto nel Cda”.
Non lo immaginavo.
“Ma chi comandava erano i socialisti”.

Ah.
“E ovviamente la massoneria seria”.
Ah.
“Non vince. E passo nel Consiglio di Ferrovie in età cimoliana. Ho un buon ricordo di Cimoli, ma votai contro la sua liquidazione come responsabile dell’ audit committee”.

Si sarebbe dispiaciuto per questo?
“Non credo. Un uomo di mondo”.
E poi?
“Ho fatto il presidente di Meta. Volevo fare una grande multiutility sui rifiuti ma sono stato sconfitto dalla politica”.

Poi viene chiamato nel consiglio di UniCredit corporale banking.
“Dove abbiamo fatto un codice per l’uso dei derivati che è utile ancora oggi”.
Il problema del secolo.
“Io li ho visti nascere. Sono stati il più catastrofico errore del mondo. Su cui ha scritto un saggio fantastico Marving King – “The End of Alchemy” – che dovrebbe essere letto per obbligo”.

E oggi?
“Sono sempre un pericolo per le economie reali”.
Poi c’è stata l’esperienza all’Asam: Autostrade lombarde.
“Volevo gestirle su un modello americano, come un ente no profit. Ma ancora una volta i politici avevano altre idee”.

E cosa è successo?
(Risata). “Pensi. Si dimisero tutti, pur di cacciarmi”.
Tanti incarichi ma anche tante dimissioni.
“Sono fatto così, ho questo caratterino. O faccio le cose come voglio o non le faccio. E non ho mai preso una stock option”.

Le sarebbe piaciuto fare il premier, quando stavano per nominarla nel 2018?
“Quello di Salvini è stato un invito per amicizia e stima. Ma si vede che non era il tempo, amen”.
Perché Salvini era suo ex studente?
“So che questa storia lei la sa”.

Lo disse Salvini, ma me la racconti a modo suo.
“Il ragazzo era intelligente – e si vedeva – ma incostante”.
In che senso?
“Di quegli studenti che un giorno accendono una lezione con domande brillanti e quello dopo non ci sono più. Che prendono un trenta, ma poi saltano una sessione”.

E lei com’era?
“Mi aveva chiesto la tesi. E io, dopo qualche esitazione, avevo deciso di affidargliene una importante, su Adriano Olivetti”.
E poi cosa accadde?
“Che lui si presentò da me e mi disse: ‘Professore, io in questa sessione non riesco a laurearmi'”.

E lei cosa gli rispose?
“Gli chiesi stupito: ‘Ma perché, è successo qualcosa?’. E Salvini: ‘Professore nulla di grave. Ma io ho il demone della politica’”.
E lei?
“Gli dico: ‘Senta, Salvini, è una malattia che abbiamo avuto in tanti. Segua il mio consiglio, nel suo interesse: prima si laurei, poi faccia tutta la politica che vuole’”.

Il giovane Matteo cosa le rispose?
“’Lei sa in che partito sono impegnato? Non me lo chiede?'”.
E lei?
“‘Non glielo chiedo e non mi interessa’”.

Ah ah ah.
“Proseguo: ‘Non dipende dal partito. Tra la politica e la mia cattedra c’è un muro. A me del suo partito non importa nulla: invece mi importa di lei. Come studente’”.

E che lezione ne ha tratto?
(Sorriso). “Mai dare consigli nella vita”.
Vede che l’aneddoto valeva la fatica della digressione?
“Lo dice lei”.

Torniamo ai giorni nostri, al dopo-Covid. La Grecia ci ha insegnato qualcosa?
“Dipende a chi. A distanza di tanti anni sono convinto ancora che un’altra Europa, con altre leadership, avrebbe impedito il fallimento della Grecia”.
È materia per gli storici, ormai.
“Il tema non è solo che non doveva fallire! La Grecia non si doveva indebitare. E invece è stata vittima di un imperialismo da debito. E poi di una prefazione da liquidatori fallimentari”.

Lei pensa che fosse un disegno?
“Ma figurarsi. Non c’è n’è bisogno. Il sistema capitalistico contemporaneo è impersonale e feroce”.
Quindi è accaduto quasi automaticamente per la spirale che si è innescata.
“La teoria del plusvalore è indipendente dalla volontà degli uomini. Ma in nome di questa logica un paese è stato depredato”.

E lì il dolo c’era.
“Non appena è scoppiata la crisi si è dato via alla spoliazione della vittima. Il porto ai cinesi, le poste ai tedeschi, il sistema di telecomunicazioni a chi offriva di più…”.

E Draghi come si è comportato all’epoca?
“Draghi ha limitato i danni. Ha lenito le ferite, perché Schauble e i tedeschi – se avessero avuto mani libere – probabilmente avrebbero fatto peggio”.

C’è una lezione che dobbiamo imparare da quella crisi che vale anche per oggi?
“Bisogna riscrivere i trattati europei. Separare una volta per tutte le spese per investimenti dalle altre”.
Invece i paesi frugali e i tedeschi sono tornati alla carica: vogliono un nuovo rigore post-Covid.
“Ho visto, letto, e mi pare prima di tutto ridicolo, e privo di senso”.

Cosa significa?
“Come ha raccontato in un bel libro l’ex segretario di Stato di Obama, Timothy Geitner, il capitalismo americano ha reagito da tempo alla politica dei tedeschi. E anche in Europa, oggi, i rapporti di forza sono cambiati”.

Draghi è stato un alleato dei tedeschi o un argine contro di loro?
(Ride). “Draghi è stato un uomo di abilità sopraffina. Facendo credere una cosa ha fatto l’altra”.
Questo, secondo lei, quando era alla Bce.
“Lui ha favorito la centralizzazione capitalistica, ma contro il nazionalismo tedesco”.

Un problema antico.
“Curiosamente era quello che voleva il ministro Rathenau ai tempi di Weimar”.
Ovvero?
“La Germania oggi può espandersi e costruire la propria egemonia solo sull’economia. Io penso che in passato Draghi sia stato il mediatore tra Stati Uniti ed Europa nel contenimento di questa propensione”.

E oggi?
“Sta cercando di spezzare i legami che l’Italia aveva con la Cina. Anche con gesti apparentemente non collegabili a questa strategia”.

Draghi ha stroncato la proposta di Letta con parole fredde.
“E ha fatto bene”.
Perché lo dice?
“Invocare la patrimoniale non mi ha mai convinto. Ma farlo in questi termini è stato addirittura un danno.

Cioè in favore dei giovani? Non mi pare un crimine.
“La dote per i diciottenni? Uuhhhmf…”.
Cioè?
“Propaganda assistenzialista: anzi, una proposta catastrofica, se collegata all’idea del voto a sedici anni”.

Non è giusto tassare la rendita passiva?
“Bisogna colpire le cose e non le persone. Facciamo pagare davvero le tasse”.

Lo vede già al Quirinale Draghi?
“Chi parte Papa in conclave di solito si ritrova cardinale. Ed è presto per fare pronostici”.
Lei vorrebbe che il governo tecnico proseguisse sino a fine legislatura?
“Bisogna tornare il prima possibile all’assetto politico di una repubblica fondata sui partiti”.

C’è molta conflittualità anche dentro il governo.
“E non va bene. La conflittualità dei partiti dentro il governo è sempre un male”.
Non le piace?
“Ma che follia è? Non puoi stare al governo ma anche all’opposizione”.

Il partito ‘di lotta e di governo’ esisteva anche nella Prima Repubblica.
“Solo perché c’era il muro di Berlino. Una vecchia idea dei comunisti era che si stava al governo anche quando si era all’opposizione. Ovvero con un senso e uno spirito nazionale che oggi pare del tutto smarrito!”.

Ma la convince la comunicazione di Draghi fino ad oggi?
“La cosa liberatoria è che non parla quasi mai. Non amo gli avvocati del popolo e i leader che fanno esercitazioni di lancio con il paracadute francese”.

Quindi sta parlando male di Letta.
“Ho parlato di esercitazioni di lancio parigine. Chi vuole capisce. Io preferisco i giardinieri che coltivano le rose e le fanno crescere”.

Torniamo al tema forte. Le grida di allarme dei tedeschi, però, partono dall’idea che il debito italiano è esploso.
“Balle”.
Il 160% del Pil è un fatto, una cifra.
“I debiti si misurano sulla sostenibilità. E il debito italiano è più che sostenibile”.

Sicuro?
“Abbiamo una grandissima ricchezza privata. E siamo in grado di fronteggiare, anche sul mercato, le aste necessarie per coprire per il nostro fabbisogno”.
Però siamo più vulnerabili.
“Al fuoco amico? Agli speculatori? Chiunque abbia questa tentazione deve sapere che non si può far scoppiare in Italia un focolaio di debito. Per l’Europa sarebbe peggio che un grave errore. Sarebbe un suicidio”.

Anche Dombrovskis ha affrontato il tema facendo analisi pessimistiche.
“Ripeto: bisogna riformare i trattati. Scrivere una Costituzione federale europea. Sostenere i partner. Ma pongo il problema al contrario”.
Cioè?
“Se saltasse l’Italia, chi rifornirebbe le catene tedesche? Emilia, Veneto e Marche sono integrate con le economie di Austria e Germania: se questa connessione si interrompe, come farebbero loro?”.

A leggere le parole di Schauble non sembrano preoccupati.
“Io non leggo i fogli marxisti, ma il giornale della Confindustria tedesca. Non c’è più consenso intorno al vecchio fronte dell’austerità”.
Dopo il Covid, intende?
“Certo! Ma come fa Schauble a non accorgersi che è cambiato il paradigma? È da irresponsabili”.

Si arriverà ad un conflitto politico?
“Credo che giustamente Draghi stia costruendo una nuova politica: l’avvenire dell’Europa è in Africa. Nel Sahel. Fuori dai vecchi confini”.
Una politica estera italiana fatta di grandeur?
“Nooo… non da soli. Macron e Draghi sulla Libia devono diventare gli antemurali di un nuovo equilibrio. Noi possiamo farlo solo in accordo con i francesi”.

In che senso il futuro è l’Africa?
“L’avvenire economico, commerciale, demografico è l’Africa. Dobbiamo vaccinare. Dobbiamo costruire, dobbiamo curare. Dobbiamo investire”.

Si fidano di noi?
“Malgrado la pagina nera del colonialismo mussoliniano, sì. Siamo il paese dei Mattei e del senatore Giovanni Bersani, che presentò la legge istitutiva dell’Eni e fondò la nostra cooperazione internazionale per lo sviluppo. Abbiamo i nostri sacerdoti. Il nostro Esercito impegnato in tante missioni di pace. Siamo credibili”.

E Draghi?
“È ancora un allievo di Federico Caffè. Che però ha studiato con Modigliani in America”.
E quindi?
“È neoliberista in tutto. È un neo-marginalista. Un neoclassico”.

Traduciamo questo ritratto in termini meno teoretici.
“Lui non c’entra nulla con il riformismo socialdemocratico. Ma il paradigma ormai è cambiato anche in America”.
E che soluzione immagina nel conflitto con la vecchia Europa rigorista e frugale?
“Finita la crisi pandemica, bisognerà che la politica si adegui”.

E come?
“L’Europa deve liberarsi del dominio della Cdu. Hanno distrutto un continente, ma ormai il loro tempo è passato”.
Non la spaventa più?
“La Merkel è al crepuscolo. Leggo questi discorsi della Merkel e di Schauble e mi sembrano – come si dice? – tutti chiacchiere e distintivo. Non sanno cosa sia la politica. Non hanno futuro”.

Morale della favola?
(Ride). “Aspettiamo sulla riva del fiume. Viva la socialdemocrazia, viva la Linke!”.

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