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Mare Jonio: per Salvini è “la nave dei centri sociali”, ma se fallisce pignorano Vendola e Fratoianni. Ecco perché

Immagine di copertina

Mare Jonio Vendola Fratoianni | Se la missione di Mediterranea non si sarà ripagata con le donazioni, a quattro persone che se ne sono fatte carico sarà pignorato il patrimonio, o il reddito, o la casa.

S&D

Matteo Salvini la chiama “La nave dei centri sociali”.

In realtà la “Mare Jonio” (oggi nota al mondo con il suo nuovo nome), appena sbarcata a Palermo, è una impresa gestita, formalmente da “una piattaforma di società civile”, che si regge sul crowdfunding liberale (più prosaicamente sulle sottoscrizioni volontarie dei singoli).

Questo significa che non si tratta di una Ong, ma nemmeno di una società privata, quanto piuttosto di un progetto di missione nato con e intorno alla nave.

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Quello che pochi sanno è che, dal momento che anche Banca Etica – finanziatrice del progetto con un mutuo – vuole garanzie economiche “in solido”, al pari di qualsiasi istituto di credito, sono stati quattro dei principali sostenitori del progetto a firmare un atto notarile, accollandosi la garanzia del capitale di partenza.

Queste quattro persone sono quelle che tra i promotori avevano i redditi più sicuri: ovvero Nichi Vendola, Nicola Fratoianni, Erasmo Palazzotto e Rossella Muroni, tutti parlamentari in carica o ex parlamentari che dovevano poter offrire al creditore piene possibilità per coprire l’intero capitale di partenza.

Quella spesa originaria era di 465mila euro, ma aggiungendo l’allestimento, i costi vivi e il personale (tutti rendicontati sul sito) l’importo totale di previsione per un anno di attività ha già superato il milione di euro.

Questo significa che si è creato un piccolo-grande paradosso: Mediterranea, grazie ad una campagna capillare, condotta soprattutto in rete, ha toccato il record di donazioni raccolte, con 650 mila euro che arrivano tutti dal crowdfunding.

Ma i costi della missione, viste le condizioni attuali in cui si opera, sono lievitati molto.

Bisognerebbe dunque brindare per il successo, ma subito dopo preoccuparsi perché se i soldi mancano la banca si rivale sui patrimoni.

Le spese rendicontate al 25 marzo scorso ammontano complessivamente a 1.225.333 euro.

Dopo i primi 360.000 euro, usati per l’acquisto sono arrivate le spese di messa in opera di questo rimorchiatore, varato nel 1972. La nave è stata adeguata alle attuali normative in materia di navigazione e alle prescrizioni delle Autorità Marittime italiane, con lavori di cantiere che solo nel 2018 sono costati 163.589 euro e nel 2019 già 125.145 euro.

La nave è stata equipaggiata con sistemi di comunicazione moderni adatti al soccorso (radiotrasmittenti e internet) e di ricognizione a mare (radar ad esempio), per quasi 70.000 euro.

Il tutto ha portato le spese complessive di gestione dei primi sei mesi di navigazione e attività a 554.605 euro. Solo di carburante si spendono 90.641 euro.

Gli stipendi dei marinai incidono per 81.177 euro, i noleggi d’imbarcazioni appoggio per ben 82.312 euro. Da queste cifre emergono due fatti importanti: il salvataggio è diventato più costoso di prima.

Devi girare a lungo, in mare aperto, spesso senza poter accedere al pari degli altri a un’informazioni delle capitanerie sui naufraghi.

Prima ogni nave era una risorsa in più, adesso le missioni civili sono poche e persino osteggiate dalle autorità.

Ecco perché la domanda da farsi è: è possibile che al confine con un paese in guerra per salvare delle vite debbano pagare i patrimoni dei singoli cittadini?

E soprattutto: se non ci fossero Mediterranea, Open Arms e gli altri, non ci sarebbe nessun testimone di quello che accade. Cosa che farebbe piacere a molti perché – come è noto – occhio non vede, cuore non duole. Soprattuto quando si tratta di vite.

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