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Impennata casi Covid, ecco perché il Sud Italia non è pronto per una vera ondata

Immagine di copertina
Credit: Ansa foto

Continua a crescere il numero dei nuovi casi di Covid-19: secondo il bollettino diramato ieri, giovedì 8 ottobre, del ministero della Salute, sono stati 4.458 nelle ultime ventiquattro ore: il totale sale così a 338.398. La Campania è la regione che spaventa di più, con 757 nuovi casi emersi nelle ultime 24 ore dall’analisi di 9.925 tamponi. L’aumento dei contagi è concentrato in grandissima parte nella provincia di Napoli.

S&D

E se da un lato, il numero dei posti letto in terapia intensiva continua a restare sotto controllo, iniziano a scarseggiare i posti nei reparti Covid dedicati, anche quelli per la terapia sub-intensiva. Una situazione che, di questo passo, potrebbe aggravarsi in molte regioni del Sud Italia. Ciò che sta avvenendo in Campania spiega bene il perché.

Negli ultimi mesi, il governatore Vincenzo De Luca ha fatto della gestione della pandemia un vero e proprio vanto, portato avanti a suon di dirette Facebook e messaggi a reti unificate. Un successo che gli è valso – lo si può dire – la rielezione a presidente della Regione Campania. Oggi però tocca misurarsi con una situazione ben diversa, in cui si moltiplicano i timori sull’aggravarsi di una possibile ondata Covid sul Sud Italia. Non fosse altro per il modo molto diverso in cui il governatore sta affrontando questa nuova emergenza. “Si è rilevato un elemento di criticità rappresentato dalla carenza di personale: bandi pubblici già esperiti non hanno prodotto la sufficiente copertura. Il numero elevato di contagi registrati vede una grande prevalenza di asintomatici destinati quindi all’isolamento domiciliare. Ma questo richiede l’impegno straordinario di personale medico infermieristico indispensabile per seguire i pazienti nel periodo di isolamento”, dichiarano dalla Regione mentre si appellano alla Protezione Civile per un contributo in termini di medici e infermieri.

Insomma, anche se ben nascosta, la paura c’è. E non riguarda solo la Campania. Se nei mesi più critici, la diffusione del virus sembrerebbe aver “risparmiato” il sud Italia, ora – con la riaperture delle frontiere, il ritorno alla vita di sempre e della normale circolazione di persone – la pandemia sembra incombere anche sulla punta dello Stivale.

La domanda che inevitabilmente ci si pone è: il Sud è pronto ad affrontare una vera ondata Covid?

I tagli alla sanità

Occorre ricordare che la sanità pubblica nazionale ha perso, tra il 2009 e il 2017, più di 46 mila unità di personale dipendente. Oltre 8.000 medici e più di 13 mila infermieri, secondo la Ragioneria di Stato. Cifre che da sole possono far comprendere come gli ospedali e i pronto soccorso, già sotto pressione al nord, potrebbero non essere in grado di reggere la diffusione dell’epidemia. Specie nelle regioni del centro e del sud, ancora meno attrezzate e con minore personale. Come denunciato dal presidente dell’Associazione Medici Dirigenti, (Anaoo), le strutture ospedaliere hanno perso, infatti, 70 mila posti letto, solo negli ultimi 10 anni.

Il grave sottofinanziamento del Servizio sanitario nazionale (SSN) è documentato da molte fonti, non ultime l’Ufficio parlamentare di Bilancio, la Fondazione Gimbe, Reforming. Gli studi economici focalizzano l’attenzione sull’analisi della spesa corrente, che in sanità è della massima importanza: sia per le retribuzioni del personale sanitario, sia per l’acquisto di prodotti (farmaci) e servizi. Tutte le fonti convergono nell’identificare un comune denominatore, il progressivo definanziamento del SSN; ricordano a questo proposito i meccanismi di riparto territoriale delle risorse e i bilanci sanitari regionali, sottolineando la più difficile situazione delle regioni del Sud, in termini finanziari e di esiti delle cure.

La spesa per investimenti in sanità in questi 18 anni è stata poi molto squilibrata territorialmente. Dei 47 miliardi totali, oltre 27,4 sono toccati alle regioni del Nord, 11,5 a quelle del Centro e 10,5 al Mezzogiorno. In termini pro capite, a fronte di una media nazionale annua di 44,4 euro, la spesa destinata al Nord-Est è stata di 76,7 euro (cioè di ben tre quarti più alta), mentre nelle isole è stata pari a 36,3 euro e nel Sud continentale a 24,7 (ovvero poco più della metà). Al Centro e al Nord-Ovest le cifre sono molto vicine alla media, ma vi sono differenze interne alle grandi circoscrizioni.

L’arretratezza delle strutture, il numero sottodimensionato di professionisti e l’invecchiamento di strumenti e apparecchiature diagnostiche hanno ripercussioni che oggi sono sotto gli occhi di tutti e che potrebbero avere conseguenze ben più nefaste se la nuova ondata Covid dovesse cogliere il Sud, specie in associazione all’ondata della normale influenza stagionale.

Carenza di medici e infermieri

Quei medici e infermieri che abbiamo imparato a chiamare eroi durante la pandemia non sono distribuiti equamente sul territorio. In dieci anni in Italia ne abbiamo persi 45mila e ora ne sono in servizio 648.500, ma il calo è concentrato in Molise, Campania, Calabria e Lazio mentre addirittura a Trento, Aosta e Bolzano il personale è aumentato. In media in Italia ogni 1.000 abitanti, 12 lavorano nel servizio sanitario nazionale per curare se stessi e gli altri 988. Ma ad Aosta si sale a 17 persone su mille e in Campania, ultima, si scende a 7.

La spesa sanitaria procapite del sistema pubblico non era omogenea neppure nel 2008, con 2.075 euro al Centronord e 1.735 nel Mezzogiorno. A distanza di dieci anni, il Sud ha tirato la cinghia fino a scendere a 1.669 del 2018 mentre al Centronord la contrazione è stata più annunciata che praticata, visto che si è saliti a 2.101. In valori la differenza tra le due macroaree è passata da 340 a 432 euro. Ma i dati accorpati non permettono di rimarcare gli effettivi cambiamenti nelle Regioni, ovvero gli enti che gestiscono materialmente i ventuno sistema sanitari. La maggiore regione del Nord, la Lombardia, nei dieci anni è passata da 2.340 a 2.530 mentre la Campania da 1.768 a 1.584. Sia chiaro: il differenziale era già forte nel 2008 – pari a 572 euro – ma dopo un decennio è quasi raddoppiato arrivando a sfiorare i mille euro.

La Campania conta 5,8 milioni di residenti mentre l’Emilia Romagna 4,5 milioni. In un paese normale di qualsiasi natura (centralista, regionalista, federale, autonomista) il sistema sanitario della prima regione sarebbe per dimensioni e finanziamento superiore a quello della regione che conta 1,3 milioni di abitanti in meno. Invece accade il contrario: per curare gli emiliano-romagnoli sono impiegati nel locale servizio sanitario regionale 59.216 persone, mentre per prendersi cura dei campani ve ne sono appena 41.891.

I timori degli esperti

Rispetto all’incalzare del virus, anche gli esperti non hanno nascosto i loro timori per il Sud. “Il rischio è che, in queste regioni, la capacità di tracciamento territoriale possa sfuggire di mano. Mi preoccupa che il sistema sanitario possa andare in sovraccarico, che vadano in tilt i servizi di tracciamento dei focolai e che manchino i posti letto. In teoria dovrebbero essere stati potenziati ma in molti ci dicono che si è trattato di un aumento solo sulla carta. In molti casi, ad esempio, non c’è neppure il personale sufficiente a gestirli”, ha dichiarato a Open, Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe.

Concetto ribadito anche da Walter Ricciardi, super-consulente del Ministero della Salute e rappresentante italiano al Consiglio dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che a TPI ha dichiarato: “La curva epidemica può creare problemi di saturazione. A me non preoccupano tanto i posti in terapia intensiva, perché oggi sappiamo curare meglio il Covid e lo sappiamo diagnosticare prima. Ciò che spaventa è la saturazione dei posti letto in generale: sono pazienti che vanno gestiti con una serie di cautele. La Campania, così come il Lazio e la Sardegna, è una regione debilitata da anni di tagli e carenze di organico, quindi è molto più in affanno rispetto alle regioni del Nord, che questi tagli non li hanno avuti”.

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