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Bambini (e genitori) di nuovo chiusi in casa a un anno dal lockdown. No, non è andato tutto bene

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I genitori dei bambini che frequentano gli asili nido o le scuole dell’infanzia che da oggi saranno alle prese con un nuovo lockdown (perché questo di fatto è) li riconosci da un particolare. Hanno le occhiaie. Hanno le occhiaie perché da un paio di giorni sfruttano la notte, l’unico momento in cui hanno del tempo per riflettere, su come organizzare lavoro e vita familiare per le prossime settimane.

Li ho riconosciuti subito, perché avevano il mio stesso sguardo perso. “Ma vi pare che chiudono di nuovo anche i nidi” ha esclamato qualcuno sperando in un ripensamento che in realtà non è nemmeno mai stato ipotizzato.

Già, perché da oggi, lunedì 15 marzo, otto studenti su dieci, secondo l’elaborazione di “Tuttoscuola”, non saranno in classe: quasi 7 milioni su un totale di circa 8 milioni e mezzo di alunni. E tra loro ci sono molti piccoli e piccolissimi, costretti a casa non si sa bene come o a far che cosa. Molti organi di stampa hanno scritto che 8 studenti su 10 da oggi fino a Pasqua saranno in Dad: non è così, perché per i bambini dell’asilo e delle materne la Dad semplicemente non esiste.

Dai 0 ai 6 anni i bambini hanno bisogno di socializzare, di scoprire cose nuove, di esplorare i loro sensi attraverso lavori ad hoc che di certo non richiedono un telefono o un computer. Proprio quegli strumenti tecnologici che mamme e papà cercano con fatica di tenere lontano dai propri piccoli, improvvisamente diventano l’unico mezzo con il quale poter permettere loro di avere un contatto con l’esterno. Una contraddizione. L’ennesima di tutta questa folle vicenda.

Non è forse una contraddizione quella di invitare incessantemente le persone a evitare il più possibile contatti per evitare le diffusione del virus e poi chiudere dei servizi essenziali come quello degli asili nido costringendo milioni di persone a doversi affidare a una babysitter per poter andare a lavorare?

E non è forse una contraddizione quella di obbligare di fatto le persone ad affidarsi ai nonni, ovvero i più indifesi e vulnerabili di fronte al Covid, perché altrimenti non saprebbero a chi altro affidare i loro figli?

E non è forse una contraddizione il fatto che la maggior parte di questi nonni non sia ancora vaccinata, mentre molte delle maestre ed educatrici hanno già ricevuto il vaccino e nonostante questo siano costrette a casa, senza poter esercitare la propria professione se non davanti a una telecamera, cantando canzoncine per bambini da inviare su Whatsapp? 

Eppure saranno ancora una volta loro, quelli che qualcuno voleva liquidare come “non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese” ad aiutare i loro nipoti e i loro figli, perlomeno quelli più sfortunati.

Già, perché quelli più fortunati si ritroveranno in smart working. Ed è incredibile come ci sia qualcuno che ritenga tale circostanza veramente come una concessione o un’opportunità. Lo è, badate bene, nel momento in cui è possibile conciliare famiglia e lavoro, non nel momento in cui un bambino che va dai 0 ai 6 anni, è in casa senza qualcuno che lo assista veramente. 

Le immagini o i meme di papà in giacca e cravatta dalla cintola in su e in mutande dalla vita in giù, contornati da bambini festanti che mettono a soqquadro casa, facevano ridere un anno fa. Adesso no. Adesso non più, perché esattamente 12 mesi dopo, molti genitori si ritrovano nella stessa condizione, mentre non si comprende ancora che un bambino piccolo ha bisogno di essere seguito con la stessa dedizione con la quale si lavora. È impensabile poter lavorare e al tempo stesso accudire un bambino (per non parlare di chi ne ha due e deve seguirne un altro magari più grande ma in Dad).

Questo è il Paese reale di cui tanto si ciancia nei talk show e nei dibattiti politici durante i quali tutti fanno finta di essere a conoscenza delle vere problematiche del Paese. Ed è davvero curioso che in un governo sorretto da una maggioranza bulgara, nessuno dei partiti che lo sostengono abbia portato avanti una battaglia per far rimanere aperti nidi e scuole dell’infanzia.

C’è la variante inglese, potrà obiettare qualcuno, e la salute viene prima di tutto, ci mancherebbe. Ma la variante inglese è sì più contagiosa tra i bambini, ma è la fascia 10-19 ad essere maggiormente colpita, così come dichiarato anche dal presidente Iss Silvio Brusaffero. Il che significa che dai 0 ai 6 anni i casi (non gravi fortunatamente) sono sì in aumento, ma non in modo esponenziale. D’altronde focolai se ne registrano pochi e le misure intraprese a settembre (rilevazione della temperatura all’ingresso, divisione dei bambini in bolle, utilizzo il più possibile degli spazi all’aperto) hanno dimostrato di funzionare, oltre al fatto, è bene ribadirlo, che il personale scolastico inizia a essere quasi tutto vaccinato. Il che rende tutto molto più sicuro.

Eppure, a un anno dal primo lockdown, nulla è cambiato e siamo di nuovo al punto di partenza. Milioni di bambini da oggi sono di nuovo a casa e lo saranno almeno per le prossime tre settimane. Anzi, una differenza c’è: ci sono i 12 mesi che intercorrono tra la prima serrata e questa nuova chiusura. Nel mezzo ci sono 100mila morti, ci sono coloro che hanno ripetuto come un mantra che la scuola “è un luogo sicuro”, salvo poi chiuderla, ci sono le vedove di Conte, i fan di Draghi, le guerre tra aperturisti e rigoristi, le stucchevoli discussioni tra virologi, ormai impegnati più ad apparire in tv che a fornire una corretta informazione, gli inviti a rimanere a casa per salvare prima il Natale, poi la Pasqua e poi ancora l’estate. C’è l’Italia, il Paese di guelfi e ghibellini.

Ma c’è anche altro. C’è l’impegno di milioni di genitori che con fatica hanno affrontato il primo lockodown e hanno visto “rinascere” il proprio figlio una volta tornato alla “libertà”. Bambini che pur tra mille difficoltà sono tornati alla vita e che ora devono rinunciare nuovamente ai loro compagni, ai loro spazi, ai loro giochi all’aperto.

Un incubo che ritorna e che questa volta fa male. Nel primo lockdown molti genitori hanno disegnato insieme ai propri figli un arcobaleno con la scritta “andrà tutto bene” su dei lenzuoli che poi sono stati attaccati alle finestre. Alcuni di quei lenzuoli penzolano ancora dai balconi e rappresentano benissimo l’attualità. Sono strappati, ingialliti, invecchiati.

Li vedi e pensi: “No, non è andato tutto bene”. Questa volta non ci saranno le pizze fatte in casa, le torte, le videochiamate a parenti e amici, i canti dai balconi. Un anno fa l’Italia si strinse in un unico abbraccio, convinta che ce l’avrebbe fatta. Dodici mesi dopo è più brutta, impoverita, disillusa e arrabbiata. E a pagarne le conseguenze sono ancora una volta loro, i più piccoli, i più indifesi, quelli meno considerati e più ignorati di tutti: i bambini, il futuro del nostro Paese.

Ma se abbiamo ancora una speranza di farcela, è proprio grazie a loro, a quei bambini che un domani saranno la colonna portante di questo maledetto ma al tempo stesso meraviglioso Paese. Ed è proprio per loro che dobbiamo rimboccarci le maniche, ancora una volta, e cercare di dare il meglio di noi stessi affinché queste settimane passino in fretta e senza troppi traumi. Perché, come diceva Emile Zola “Quando non c’è più speranza nel futuro, il presente si colora di una spaventosa amarezza”. E noi abbiamo bisogno di continuare a sperare per sopravvivere a questo incubo.

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