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Coronavirus, il Veneto aveva la ricetta per scovare i contagiati asintomatici già 20 giorni fa. Ma ha temporeggiato

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Dopo quasi tre settimane dall’annuncio del test dell’università di Padova, vista l’emergenza sempre maggiore, il presidente della Regione Luca Zaia fa marcia indietro e dispone tamponi a tappeto obbligatori. Ma è tardi: quel tampone sarebbe stato cruciale per contenere la diffusione dell'epidemia specie tra i contagiati che non presentano sintomi gravi, che si possono scovare solo grazie al controllo salivale. E oggi i medici sono costretti a fare doppi turni e a lavorare a ritmi infernali

L’Italia è il terzo paese nella classifica globale per contagi da Coronavirus. Un’epidemia serissima, che poteva essere contenuta in modo diverso: la soluzione ce l’avevamo sotto il naso. In Veneto precisamente. Il 4 febbraio scorso l’ospedale dell’Università di Padova annuncia di aver trovato un test rapido in grado individuare con tamponi di saliva il Coronavirus in meno di tre ore. Un record e un grande risultato per una delle regioni, il Veneto, eccellenza della sanità italiana.

S&D

La lettera che blocca il test

Ma 7 giorni dopo, l’11 febbraio, il direttore generale della ASL Veneto e presidente dell’Aifa (l’Agenzia Italiana del farmaco), Domenico Mantoan, blocca tutto con una lettera indirizzata al direttore dell’ospedale di Padova e al primario dell’Unità di Virologia, Luciano FlorAndrea Crisanti (che noi di TPI abbiamo letto). La motivazione? “Le spese per coprire quei tamponi non sono previste nel budget regionale”. E la lettera dice che in assenza di un avallo da parte del ministero della Salute, non si possono fare quei test.

Così il tampone non viene mai utilizzato. E il Veneto, a 20 giorni da quando l’ospedale di Padova ha annunciato per la prima volta di aver trovato il test per il Coronavirus, è il secondo focolaio in Italia per numero di casi positivi (oltre 40) dopo la Lombardia. Sostanzialmente, per colpa di uno scontro interno alla sanità regionale sui test si è temporeggiato e l’efficacia del dispositivo di contenimento del contagio è stata minata alla radice. “Dopo sono tutti bravi a pontificare, a inizio febbraio ancora non era scoppiata l’emergenza e non c’erano indicazioni ministeriali per svolgere tamponi a tappeto”: contattato telefonicamente, il direttore della ASL Mantoan giustifica così a TPI i 20 giorni senza test.

Ecco di seguito la lettera dell’11 febbraio:
TUTTE LE ULTIME NOTIZIE SUL CORONAVIRUS IN ITALIA

Perché il tampone era fondamentale per contenere il Coronavirus

Il supermanager della sanità Mantoan ordinava dunque di condividere ogni scelta “con la direzione prevenzione, sicurezza alimentare e veterinaria” della regione, ricordando che ogni analisi effettuata su “soggetti asintomatici non rientra tra le prestazioni coperte dal fondo del Ssn”, il sistema sanitario nazionale. Una bocciatura totale anche solo dell’ipotesi di estendere i controlli.

L’idea del team di Crisanti era di estendere i controlli alle persone tornate dalla Cina anche se asintomatiche, cioè senza né febbre né altri sintomi, ipotizzando che vi potessero essere dei “portatori sani” del virus da individuare e isolare rapidamente per limitare il più possibile la diffusione. E l’idea avanzata dal dipartimento di medicina molecolare diretto dal professor Crisanti era anche condivisa dalla direzione dell’azienda ospedaliera.

Ma cosa avevano in mente i ricercatori padovani? I medici si erano messi al lavoro per sviluppare il tampone già alla fine di gennaio, quando in Italia non c’era ancora un’epidemia come a Wuhan in Cina, ma si era appena riscontrato il caso dei due turisti cinesi contagiati e ricoverati poi allo Spallanzani di Roma.

Al momento, tutti gli esperti in Italia sono d’accordo sul fatto che gli untori senza sintomi possano diventare pericolosi perché difficilmente rintracciabili. Come ha spiegato il virologo Fabrizio Pregliasco a TPI: “Il Coronavirus è più difficile da fermare della Sars. Quella malattia aveva una mortalità del 30 per cento e sintomi gravissimi: questo facilitava la quarantena e l’isolamento dei pazienti. Con il Coronavirus invece non si ha contezza, è molto più subdolo e nascosto. Chissà quanti untori senza sintomi apparenti scorrazzano per l’Italia al momento!” (qui l’intervista completa). Proprio per questo il tampone sviluppato dall’Università di Padova poteva essere fondamentale.

Certo, c’è anche il lato economico e burocratico. Il professor Pregliasco, che in queste settimane sta studiando l’epidemia da molto vicino, dice: “Da una parte capisco Mantoan. Era una scelta difficile da prendere, ovvero 20 giorni fa senza questo livello di contagi potevano criticarlo nel senso contrario: per grosso spreco. Difficile fare l’arbitro in questa situazione”.

La denuncia dell’opposizione politica

È il capogruppo del Movimento Cinque Stelle in Regione Veneto, Jacopo Berti, a denunciare per primo la situazione controversa. Secondo lui, sarebbero stati così “impediti screening probabilmente cruciali”, al punto da chiedere al governatore Zaia di “far dimettere Mantoan e l’assessore alla sanità Manuela Lanzarin“.

Le persone per il tampone non bisognava neanche cercarle: dopo l’elaborazione del test microbiologico ad opera del team di Crisanti era stata registrata la collaborazione della comunità cinese, tanto che al laboratorio di Padova si erano presentati spontaneamente centinaia di cittadini che avevano avuto contatti con Cina nell’ultimo periodo e che volevano effettuare il tampone. Invano.

Scoppia l’emergenza… E il caos per tantissimi test

Dopo quasi tre settimane dall’annuncio del test, vista l’emergenza sempre maggiore, il governatore del Veneto Luca Zaia torna a ridiscutere l’utilità del tampone e dispone controlli serrati per tutta la Regione e a tappeto sui cittadini dell’epicentro in quarantena, Vo’ Euganeo: vengono così eseguiti 4.500 tamponi in soli due giorni, dal 23 febbraio al 25 febbraio. Risultato: in 48 ore a Padova sono stati trovati più di 30 casi positivi, alcuni dei quali non riportano sintomi gravi, e sono stati “scovati” solo grazie al tampone inizialmente bloccato dalla Regione.

E ora i medici, gli infermieri e i tecnici di laboratorio – alle prese con un emergenza sempre più acuta – “sono obbligati a fare turni massacranti no stop e a eseguire tamponi in fretta e furia“. Questa la denuncia a TPI del direttore sanitario dell’Unità di Virologia dell’Università di Padova: “È stata una scelta scellerata aver fermato i tamponi a inizio febbraio, avremmo potuto isolare molti più casi. Per colpa della politica, non possiamo certo dire di aver fatto il massimo, e questo è molto triste”, ammette Crisanti.

Dormono in tenda fuori dal pronto soccorso, qualcuno non torna a casa da tre giorni: è il destino dei medici eroi che stanno cercando di annientare il Coronavirus a Padova. Il direttore Crisanti è provato e sotto stress: “Ci manca il personale, ma i miei medici stanno dando l’anima”, racconta.

Le tende dell’ospedale di Padova: è qui che dorme il personale medico

La risposta della Asl

La politica la fanno le persone. E la persona che ha disposto lo stop ai tamponi viene definita “lo zar leghista della sanità“. Lo scorso novembre viene nominato presidente dell’Aifa, l’agenzia che gestisce l’intera spesa farmaceutica e controlla il mercato miliardario dei medicinali. Sono poi due infortuni con l’auto di servizio a insidiare la sua carriera di super-dirigente della sanità nel ricco Veneto e in tutta Italia. Una nomina, decisa dalla conferenza delle Regioni, che sancisce il passaggio alla Lega di questo cruciale centro di potere sanitario, economico e politico.

Mantoan, 62 anni, vicentino di Brendola, occupa da un decennio, ininterrottamente, la poltrona di direttore generale della sanità veneta: è lui il capo indiscusso di un apparato regionale che muove ogni anno otto miliardi di euro di spesa pubblica.

Nel caso dei tamponi per il Coronavirus, il direttore sanitario Mantoan ci tiene a specificare che “Il ministero non ha mai avallato la posizione del prof Crisanti”. In una circolare ministeriale del 22 febbraio si parla di indicazioni sui casi sintomatici da Coronavirus:

Resta il fatto però che “più tamponi si fanno, più casi vengono identificati”, ribadisce il medico dell’università di Padova.

Non è un problema di soldi

Il Veneto aveva in casa la ricetta del tampone per contenere la diffusione del Coronavirus. Ma non si è mosso, anzi ha rallentato il tutto. Solo oggi la Regione fa marcia indietro con colpevole ritardo: i medici devono fare tutto in extremis e con orari infernali.

E a differenza di quello che sostiene il direttore sanitario della ASL Veneto Domenico Mantoan, i soldi non c’entrano poi tanto: ciascun tampone costa alla Regione Veneto circa 60 euro (soldi che poi vengono comunque rendicontati al ministero della Salute), farne 10.000 costerebbe 600mila euro. Nulla per la prima regione in Italia – il Veneto – per spesa pubblica nella sanità con 8 miliardi di euro l’anno a disposizione.

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