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Home » Cronaca

Coronavirus, la denuncia di Arianna: “Mia madre soccorsa troppo tardi, mio padre positivo, ma per la mia famiglia ancora nessun tampone”

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Coronavirus, la denuncia di Arianna

A complicare la situazione di molte persone affette da Coronavirus in Italia è l’attesa dei soccorsi e la mancanza di tamponi: è il caso della mamma di Arianna Esposito, una donna morta a Napoli  dopo aver manifestato per giorni i sintomi del Codiv-19 e con il marito positivo ricoverato in ospedale. Le sue condizioni erano già gravi quando è arrivata al Cotugno di Napoli il 24 marzo scorso perché, come racconta la figlia al Messaggero, gli operatori dell’ambulanza si erano rifiutata di soccorrerla tempestivamente quando avevano chiamato il numero d’emergenza la prima volta, pensando che le sue condizioni non fossero così gravi. Quando finalmente si sono decisi a condurla in ospedale, era ormai troppo tardi. Ma per comprendere la vicenda, occorre fare un passo indietro.

S&D

L’11 marzo il papà di Arianna avverte i primi sintomi influenzali e, dopo un rapido peggioramento delle sue condizioni, chiama il 118. Nonostante la tosse e i dolori articolari, gli operatori gli consigliano di rivolgersi al medico di base, il quale gli prescrive una cura a base di antibiotici. L’uomo però non migliora, così dopo pochi giorni la moglie e il cognato lo portano in ospedale, al Cotugno di Napoli.

“Qui, mentre mio padre aspettava di fare finalmente il tampone, mia madre è improvvisamente svenuta”, racconta Arianna al Messaggero. “E’ stata soccorsa dai medici che hanno rilevato febbre a 39.5 e saturazione a 86. Dopo le cure del caso è stata dimessa ed è tornata a casa insieme a mio padre, in attesa di ricevere il responso del tampone”. Il risultato del test è positivo, così il padre di Arianna viene subito ricoverato. Nel frattempo anche le condizioni di sua moglie iniziano ad aggravarsi, e sono simili a quelli mostrati dal marito pochi giorni prima: febbre a 38 e saturazione molto bassa, a 86. Non abbastanza però per la squadra di operatori chiamati in casa da Arianna il 20 marzo per far visitare la madre, che quel giorno non viene ricoverata.

Trascorrono altri 4 giorni prima che Arianna torni ad interpellare i soccorsi, ma in quel gli operatori le chiudono il telefono in faccia sostenendo che fosse impossibile che “una donna di 55 anni avesse problemi respiratori”. “Mia zia ha chiamato il 112 e gli operatori stavolta si sono messi a disposizione, fornendoci un numero a cui chiamare nel caso il 118 si fosse rifiutato ancora di intervenire e sottolineando che forse non era il caso di andare in ospedale visto l’elevato rischio di contagio”, racconta ancora Arianna. “L’unica cosa che hanno saputo dirci è che forse era meglio aiutare mamma con una bombola d’ossigeno, che le farmacie si rifiutavano di consegnarci a domicilio e l’intera famiglia era in quarantena”.

Dopo circa 6 ore di attesa, la nuova chiamata dei soccorsi, che questa volta prelevano la donna e la conducono al Pronto soccorso. Troppo tardi: una volta arrivata in ospedale la signora era già in arresto cardiocircolatorio. Inutili i tentativi di rianimazione da parte dei medici, che in serata comunicano alla famiglia la morte della congiunta. Adesso l’odissea di Arianna continua: nonostante la morte della madre e un caso accertato di Coronavirus in famiglia, è ancora difficile ottenere un tampone per lei, per suo marito e per il figlio di 15 mesi.

“Abbiamo chiesto un tampone, ma al momento ancora non sappiamo se verranno a farlo. Ci sentiamo abbandonati da tutti, a cominciare dalle istituzioni. Stiamo vivendo una tragedia nella tragedia perché non solo non possiamo piangere insieme ai nostri parenti per la morte di mamma, ma non possiamo nemmeno sapere se anche noi siamo stati contagiati”, denuncia la donna al Messaggero. “Voglio ringraziare con tutto il cuore i medici dell’ospedale del Mare che hanno tentato in tutti i modi possibili di strappare mia madre alla morte. Lo stesso ringraziamento non possiamo rivolgerlo ad alcuni operatori dei numeri di emergenza che, nonostante le nostre continue segnalazioni, hanno continuato a sottovalutare il problema, intervenendo quando forse era già troppo tardi. In questo periodo si muore soli come cani, abbandonati in un letto d’ospedale senza il conforto della propria famiglia, per questo gli operatori dovrebbero mostrare maggiore umanità”, conclude Arianna.

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