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19 marzo 1970: il giorno in cui Michele Dancelli oscurò Willy Brandt

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La scomparsa di Michele Dancelli, avvenuta ieri a Castenedolo in provincia di Brescia, dov’era nato l’8 maggio 1942, ha destato una profonda emozione in tutti i boomer italiani. Campione istintivo e irrazionale che, se avesse corso usando maggiormente la testa, avrebbe vinto ancor più di quanto non abbia fatto, Dancelli rimarrà per sempre scolpito nella memoria storica nazionale per aver conquistato, giovedì 19 marzo 1970, la 61ma Milano-Sanremo, ponendo fine a un digiuno di vittorie italiane lungo ben 17 anni, per la precisione dal successo di Loretto Petrucci nel 1953.

Seppur nota come la classicissima di primavera, all’epoca la Milano-Sanremo segnava più la chiusura dell’inverno, venendo disputata nella ricorrenza festiva di San Giuseppe, almeno fino alla sua abolizione nel 1977. Era questa, per tradizione, una giornata sancita da tre momenti unificanti per le famiglie italiane: la degustazione dei bignè, l’ascolto radiofonico, poi divenuto visione televisiva, della corsa e lo Zecchino d’Oro, il festival canoro dedicato ai più piccoli, condotto dal Mago Zurlì.

Ho ben vivi nella memoria tanti San Giuseppe della mia infanzia con gli immancabili bignè, che facevano da preludio alla visione della Sanremo e al successivo collegamento con il Teatro Antoniano di Bologna. In realtà, i bignè e i brani canori, che ancor oggi, a più di mezzo secolo di distanza, mi trovo quasi inconsapevolmente a canticchiare, fungevano da dolcificante per le amarezze ciclistiche in quanto io, nato nel 1958, il 19 marzo 1970 non avevo mai visto un italiano vincere in Via Roma. Fino ad allora, il principale ricordo legato alla corsa dei fiori era l’intervento d’urgenza d’appendicite cui fu costretto mio padre, nel 1961, dopo aver sfogato la sua amarezza per la vittoria di Raymond Poulidor, nonno di Mathieu van der Poel, ingurgitando ben 19 bignè.

Quel 19 marzo 1970, tuttavia, era destinato a entrare negli annali internazionali ma non certo per motivi ciclistici. A Erfurt, nella Reppublica Democratica tedesca, era in programma un evento dalle implicazioni storiche immense: dopo un quarto di secolo le due Germanie tornavano a dialogare. Willy Brandt, divenuto cancelliere della Repubblica Federale nell’autunno precedente, aveva intrapreso quella che poi è divenuta famosa come la Ostpolitik. Nell’ottica di questa apertura a oriente, Brandt aveva teso la mano ai cugini oltre cortina. Willi Stoph, primo ministro della DDR, aveva risposto a questa apertura invitando il cancelliere a un incontro nella città fino ad allora nota principalmente per essere stato il luogo di formazione teologica di Martin Lutero. All’epoca non lo si sapeva, o forse non lo si osava sperare, ma quel giorno ha avuto inizio il ventennale processo che ha portato alla caduta del muro di Berlino e alla riunificazione della Germania.

Con mio padre inviato dall’Espresso al vertice di Erfurt, io la Milano-Sanremo 1970 la vidi da solo, senza nessun bignè che mi addolcisse il palato. Questa astinenza dolciaria, però, deve avere portato bene. Ricordo l’attacco da lontano di un gruppo di una ventina di corridori, tra cui Dancelli. Il bresciano, poi, tentò l’azione solitaria a Loano, a ben 70 chilometri dal traguardo. Sembrava una follia; invece, fu il colpo vincente con Michele che, superato il Poggio, si presentò, già in lacrime, in Via Roma in uno scenario di tripudio che ricordava la liberazione delle città italiane da parte dei soldati americani al termine dell’ultimo conflitto mondiale. Alla pari con lo scambio di borracce tra Bartali e Coppi e la fucilata saronniana di Goodwood, l’immagine del campione di Castenedolo che taglia il traguardo sanremese è diventato un’icona della storia del ciclismo italiano.

La vittoria di Dancelli relegò sui giornali italiani ogni altra notizia in secondo piano, a cominciare dall’incontro di Erfurt per finire con lo Zecchino d’Oro. A onor del vero, di quella edizione 1970, vinta dalla obsoleta La nave Gelsomina Dirindirindina, si ricorda oggi solo una canzone, Il lungo, il corto e il pacioccone. Fatto sta che il pieno di eventi storici per quel giorno era già ampiamente esaurito. A più di mezzo secolo di distanza, credo lo si possa affermare con certezza.

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