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Home » Spettacoli » Cinema

“Raccontare storie attraverso le immagini”: il regista Jean Carlos Gonzalez Flores spiega il suo cinema a TPI

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È arrivato in Italia a 17 anni dall’Ecuador. Ha lavorato anni per pagarsi gli studi all’Accademia. E ha anche interpretato un piccolo ruolo come attore nel film “Queer” di Luca Guadagnino. Dopo l’uscita nelle sale della sua opera prima “Più di ieri”, il 28enne rivela a TPI la sua visione del mestiere

Un esordio che colpisce quello del regista ecuadoregno Jean Carlos Gonzalez Flores che a soli 28 anni firma la regia di un film intimo, che diverte e commuove. “Più di ieri” (dal 29 maggio al cinema) è un’opera prima interessante, prodotta dalla NoMade Film, la produzione delle sorelle Drikes al loro esordio nel cinema. È un film indipendente, ambientato a Milano con protagonisti under-30, Luca Di Sessa (“Mike”, “Prima di Noi”) e Marcos Piacentini (“Cleopatras”, “Imma Tataranni”, “Brennero”) che mette al centro della storia l’incontro e la relazione fra due giovani di culture diverse e il loro tentativo di sostenersi in un momento delicato della loro vita. Una periferia descritta e sentita come un ambiente di accoglienza, come un viaggio fra culture diverse, e non di divisioni. Una storia solo all’apparenza ordinaria ma che in realtà è estremamente profonda e umana e rivela già uno stile unico e personale.

Realizzare un esordio così giovane non è da tutti. Come ci è riuscito?
«Premessa, non pensavo ad un lungometraggio. Avevo scritto con Nicolò (Magnani) un cortometraggio sulla storia di mio papà che era venuto a mancare per Covid. Ne ho parlato con Fabrizio Nacciareti, uno dei miei professori in Accademia 09, che poi è diventato anche il direttore della fotografia del film, che mi propose di incontrare a Roma una sua amica, Veronica Drikes, che aveva appena aperto una casa di produzione e cercava storie. Lei però voleva investire in un lungometraggio, quindi ci chiese di adattare il soggetto che avevamo scritto. La storia del corto non era adatta a un lungo, così con Nicolò abbiamo pensato di raccontare qualcosa di molto intimo, che conoscevamo bene e che potevamo scrivere in modo profondo. Così è nato “Più di Ieri”, che è la storia del nostro vissuto, delle nostre paure, e di come questo nostro incontro ha trasformato e ha cambiato le nostre vite».

Un film opera prima quasi per tutti: dalla produzione al cast artistico.
«Ed è stato bello proprio per questo. Abbiamo lavorato tutti insieme fin dall’inizio, dai casting. Sul set è stato magnifico, ci siamo dati una mano, consigliati, sostenuti. Sono stato lasciato libero di esprimermi e di rappresentare la mia visione.  Ho amato ogni giorno della lavorazione che però è finita presto, come tutte le cose importanti e belle. Ma sto già pensando ad un nuovo progetto. Con Nicolò, stiamo scrivendo una specie di road movie fra l’Italia e il Sud America».

Quando ha scoperto di voler intraprendere questa strada?
«È qualcosa che sapevo fin da piccolo, perché giocavo molto con l’immaginazione, però a Machala, in Ecuador, dove sono nato e cresciuto, non c’era la possibilità di avvicinarsi al mondo del cinema e di sviluppare questa mia attitudine. Gli unici film che arrivavano erano dei blockbuster, non c’era cinema indipendente o altro. Poi a 17 anni, mia mamma preparò tutti i documenti e ci trasferimmo a Milano dove ho finito il liceo. Un professore mi consigliò di seguire un corso di recitazione per imparare meglio l’italiano e migliorare il mio accento. Mi piaceva ma intuivo che quella non era la mia strada».

Quando ha capito che voleva fare il regista?
«La passione per il cinema me l’ha trasmessa Nicolò. L’ho conosciuto il primo anno in cui sono arrivato a Milano. Lui è un vero appassionato. Mi ha fatto scoprire il cinema indipendente, ho conosciuto registi e opere che non immaginavo, ho visto tanti film del passato e ho cominciato a guardare i film in un modo diverso, con un’attenzione al linguaggio, alla regia. Poi un giorno in metro ho visto la pubblicità dell’Accademia di Cinema 09. E mi sono detto: è questo quello che voglio fare».

La famiglia come l’ha presa?
«Mia madre voleva che facessi l’Università, che trovassi un lavoro stabile, così decisi di non pesare sulla famiglia e di mettermi a lavorare. Ho fatto per tre anni il barista e mi sono pagato l’accademia e i laboratori. Ho abbandonato subito l’idea di fare l’attore, e mi sono innamorato del mestiere del regista, che può raccontare attraverso le immagini tante storie diverse».

L’approccio al lavoro com’è stato?
«Grazie all’accademia ho cominciato a partecipare alla realizzazione di cortometraggi accademici e spot pubblicitari. Mi piaceva tantissimo. Da lì ho iniziato a scrivere le mie storie e a realizzare dei piccoli cortometraggi firmando la regia. Un lavoro che è stata una vera palestra, senza il quale non avrei potuto affrontare la regia di un lungometraggio come “Più di ieri”».

Non voleva fare l’attore però ha partecipato, con una piccola parte, al film “Queer” di Luca Guadagnino.
«Mi si è presentata l’opportunità e l’ho presa al volo. Cercavano sudamericani e mi sono detto: perché no? Guadagnino è un regista che ammiro tantissimo, in questo modo potevo guardarlo all’opera. Quando mi ricapitava? Ero molto agitato perché dovevo avere a che fare con Guadagnino e con Daniel Craig, e in più ero concentratissimo perché volevo rubare quante più informazioni possibili. Arrivato sul set mi hanno fatto sentire subito a casa. Daniel Craig e Drew Starkey si sono presentati, abbiamo scambiato qualche parola. Poi è arrivato Guadagnino, abbiamo provato la scena, è andata bene ed abbiamo girato subito».

Che esperienza è stata?
«Guadagnino è incredibile, l’ho guardato tanto sul set. È molto silenzioso e attento. C’erano tre camere sul set e lui era dietro una. Di solito il regista è al monitor, non alla camera. Mi ha dato delle indicazioni precise, su come dovevo muovermi e che intenzione avere nello sguardo. Sempre con gentilezza. Per me è stato un grande insegnamento. Ho capito che il regista deve avere una visione precisa di quello che vuole raccontare ed un grande rispetto per tutti coloro che ci lavorano. Un’ esperienza che mi porterò sempre nel cuore».

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