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La regista e autrice Elisa Amoruso a TPI: “In Italia la libertà di scelta non è ancora difesa”

Immagine di copertina
Credit: Fabio Lovino

“Non c’è donna che, a un certo punto, non abbia dovuto scegliere tra maternità e identità”. Elisa Amoruso racconta a TPI il suo ultimo film “Amata”. Con cui rompe il tabù del pregiudizio sulla scelta di avere o meno figli. "La solidarietà e la sorellanza sono importanti in un Paese profondamente patriarcale. Spero che i giovani imparino a non giudicare"

È già impegnata nella preparazione di un film internazionale che sta girando in Italia per volere della figlia, che le ha chiesto di finire la quinta elementare a Roma. La regista e autrice Elisa Amoruso (“Chiara Ferragni — Unposted”; “Maledetta primavera”, “Time is Up”) ha accettato ben volentieri in modo da poter seguire in giro per l’Italia le anticipazioni al pubblico di “Amata”,  presentato alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori del Festival di Venezia e nelle sale dal 16 ottobre, in cui si affronta un tema coraggioso soprattutto in Italia che riguarda la scelta personale delle donne di avere o non avere figli. Il film, interpretato da Tecla Insolia, Miriam Leone e Stefano Accorsi, espone due storie che si incrociano: quella di Nunzia, una giovane studentessa, schiacciata dal peso di una gravidanza segreta e non desiderata. E quella di Maddalena e Luca che abitano un vuoto lasciato da ciò che non arriva. Dopo un lungo percorso, una possibilità si affaccia nelle loro vite: delicata, luminosa, carica di attese. “Amata” è la storia di due donne che raccontano l’amore, la libertà e la maternità in molte delle sue forme.
«Il film prende spunto da un fatto accaduto a Milano: un neonato lasciato in una culla con una lettera struggente da parte della madre», ci racconta Elisa Amoruso. «Quella vicenda, divenuta virale, ha acceso un dibattito profondo sulla maternità. Sulla libertà delle donne e sul diritto al silenzio. Gli spazi che attraversano – la Roma popolare di Nunzia, la clinica asettica di Maddalena – riflettono il loro stato interiore», aggiunge la regista. «La loro solitudine è diversa, ma comune. Sono due volti della stessa medaglia: chi può ma non vuole, chi vuole ma non può».
«Questo film», prosegue, «nasce anche da un’urgenza personale, quella di raccontare temi importanti, spesso avvolti dal silenzio: il dolore di un aborto, e so di cosa parlo perché ho abortito a ventidue anni, la depressione post-partum, il conflitto tra il desiderio di essere madre e la propria identità di donna, la tenacia di chi vuole essere madre a tutti i costi e chi ha deciso di non avere figli, o ancora chi ha portato avanti una gravidanza, pur non essendo del tutto convinta. «Non c’è donna che io conosca che non abbia dovuto fare, ad un certo punto della sua vita, una scelta», continua Amoruso. «È un tema che ci coinvolge tutte e per cui spesso non abbiamo possibilità di confronto. “Amata” vuole rompere questo silenzio e aprire uno spazio di comprensione emotiva, affinché donne come Maddalena si sentano meno sole e donne come Nunzia siano libere di scegliere.»

Scelte che spesso le donne vivono in grande solitudine.
«Una grande solitudine qualsiasi sia la decisione che si prende. C’è un vero e proprio tabù su certi temi, come per esempio l’aborto o la scelta di non riconoscere un figlio lasciandolo in adozione. Per questo ho sentito la necessità di raccontare una storia con al centro la maternità. Quando ho letto il romanzo omonimo di Ilaria Bernardini, che collabora alla sceneggiatura, ho pensato che era perfetta per raccogliere dentro di sé tutte queste sfumature  attraverso due storie diverse».
Il fatto è che qualsiasi scelta si faccia, il giudizio della società è sempre molto duro.
«Per questo le donne hanno difficoltà a parlare di questi temi. Però il film ha suscitato tanta curiosità. L’ho notato a Venezia e negli incontri  con il pubblico che abbiamo organizzato con l’associazione “Una, nessuna, centomila”. Alla fine delle proiezioni le domande sono state tantissime, proprio perché è un argomento che neanche noi donne affrontiamo. In altri Paesi c’è una difesa della libertà di scelta che in Italia ancora non esiste. Ho deciso di fare questo film affinché tutte le donne che lo vedano si sentano meno sole».
Ha fatto una scelta importante anche per quanto riguarda le due attrici, Tecla Insolia e Miriam Leone, che impersonano rispettivamente Nunzia, la giovane studentessa e Maddalena, la donna che ha difficoltà ad avere figli con suo marito, interpretato da Stefano Accorsi.
«Tecla Insolia ha fatto un provino pazzesco ed era impossibile non sceglierla. Lei ha un viso che esprime i sentimenti con tante sfumature. Ha un’empatia straordinaria. La scelta degli attori che dovevano interpretare Luca e Maddalena è stata più complessa perché dovevano funzionare visivamente come coppia. Infatti siamo partiti con una coppia diversa, poi è cambiato lui, poi pian piano siamo riusciti a trovare la combinazione giusta in Miriam Leone e Stefano Accorsi, che avevano già lavorato insieme, e sono riuscita a trovare in loro una certa intimità. Il loro modo di esprimersi proprio a livello di sceneggiatura era più complesso, fatto di gesti, di silenzi, di sguardi e di una rabbia repressa per qualcosa che non arriva. Una parte complicata da mettere in scena».

Come ha lavorato con gli attori?
«Sono stata fortunata, perché ho girato questo film dopo l’esperienza in Scozia con il regista Frank Scott (“Godless”, “La regina degli scacchi”) per la serie Netflix “Dept.Q – Sezione casi irrisolti”. Lui mi ha insegnato a dirigere gli attori senza prevenzione, dimenticando un po’ quello che si è immaginato per quel personaggio, lasciando spazio all’emozione dell’attore dentro quel ruolo, lasciandolo più libero di improvvisare. L’esperienza con Scott è stata fondamentale per poi riuscire a dirigere in questo modo gli attori in “Amata”».
Ha diretto tre episodi di questa serie britannica con Matthew Goode che ha avuto un successo incredibile. Frank Scott è l’ideatore e il direttore creativo. Com’è andata?
«Mi sono trovata decisamente a mio agio. La cosa più importante su questi set così grandi è imparare a gestire le personalità complesse degli attori. Una volta che hai superato questa fase la maggior parte del lavoro è fatto. La cosa più difficile su questo set è stata capire lo scozzese, che è un’altra lingua. Per me è stata una grande prova di resistenza, infatti appena sono tornata a Londra, mi sono detta: allora, lo capisco ancora l’inglese! È stata anche una fortuna perché quando non capisci bene le parole ti soffermi sull’intensità dello sguardo, sull’espressione del volto, sui gesti e il linguaggio del corpo. Alla fine è anche molto utile. L’avevo già sperimentato alcuni anni fa quando fui selezionata per un master di regia della European Film Academy a Varsavia, nella scuola di Andrzej Wajda. Dirigere attori che parlavano in polacco è stato un insegnamento illuminante di direzione».
Certo è incredibile. Oggi le chance per una regista o per un’attrice, vedi il caso di Sabrina Impacciatore, arrivano più dall’estero che dal nostro Paese, infatti Frank Scott l’ha scelta perché ha visto la serie “The Good Mothers”, che ha diretto con Julian Jarrold e che ha vinto un Orso d’Oro al Festival di Berlino.
«Il fatto è che all’estero danno importanza al modo in cui lavori e questo a prescindere da qualunque cosa. Dall’età, dal genere, dalla famiglia a cui appartieni, non conta chi sei, ma quello che fai e come lo fai. Vedono qualcosa che hai fatto e che gli piace, e ti chiamano. Devo dire che “The Good Mothers” è stata veramente tanto apprezzata all’estero, soprattutto nel Regno Unito».

È ancora difficile per le donne esprimersi in Italia?
«Per le donne è sempre difficile in Italia, perché comunque parlando per esempio del regista, ci si dimentica che è un ruolo di potere. E il potere nell’immaginario popolare italiano è sempre associato al maschile, non al femminile. Tenga presente che le registe in Italia sono solo il 17%. Questo è un dato molto significativo».
Sono dati che fanno impressione. Anche perché sulle scelte delle donne c’è ancora un giudizio e un pregiudizio feroce che spesso giunge proprio da altre donne.
«Si ed è per questo che ho voluto fare questo film. Il messaggio che c’è nel finale di “Amata” è la solidarietà che si verifica fra due donne che neanche si conoscono, che magari non si incontreranno mai, ma che si aiutano: un enorme problema di una, ha risolto il problema dell’altra. La solidarietà, la sorellanza è importante soprattutto nel nostro Paese profondamente patriarcale. Non so se il film riuscirà a far passare questo messaggio, perché è un qualcosa che arriva a chi ha una certa sensibilità, a chi ha avuto esperienze di questo tipo, a chi è libero e a chi riesce a vederlo senza giudicare Nunzia, né tanto meno Maddalena per le scelte che fanno. Ho questa speranza, soprattutto per le nuove generazioni».

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