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Chiara Francini: “Quello che sono lo devo alle umiliazioni subite al liceo, l’odio è sottovalutato”

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Chiara Francini: “Quello che sono lo devo alle umiliazioni subite al liceo”

Nel suo libro autobiografico, l’attrice e conduttrice Chiara Francini racconta non solo le umiliazioni subite al liceo, ma anche e soprattutto l’importanza dell’odio nella sua vita.

In un estratto del volume Forte e Chiara, nelle librerie del 23 maggio, pubblicato da La Stampa, infatti, l’interprete racconta: “Quella che sono lo devo alle botte che ho preso al liceo, e sì, certo, erano botte morali, ma volete venire a dirmi che fanno meno male?”.

“Quella che sono lo devo, soprattutto, alle umiliazioni, alle ingiustizie che mi sono state spalmate in faccia laggiù, dove ho conosciuto l’amicizia, la cooperazione ma, soprattutto, l’odio”.

Secondo Chiara Francini, infatti, “l’odio è un sentimento profondamente sottovalutato. Cattivi maestri sono quelli che, con tanta vaselina, imboccano i poveri fanciulli e le povere fanciulle, raccontando loro che la felicità, la giustizia le si agguantano solo con l’amore. Essi mentono. Sì, con l’amore si fanno certe cose, ma il grosso si fa con l’odio: profondo, viscerale, instancabile. E, a me, quel liceo ha dato la possibilità di approfondire, di scavare nelle guerre puniche tanto quanto in me stessa”.

 

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“Per esempio – racconta ancora l’attrice – quando l’insegnante di matematica, la professoressa N., alla mia ennesima excusatio non petita che con voce pesta sussurravo alla lavagna: ‘Mi scusi, mi scusi tanto professoressa’, incapace di accontentarla anche solo ripetendo uno stupido postulato – che i postulati non hanno altra funzione se non quella di essere ripetuti a memoria –, mi diceva, calma come il vapore: ‘Francini, non devi chiedere scusa a me, ma a te stessa. Per la tua stupidità'”.

L’attrice, quindi, prosegue: “E io ho odiato. Grazie a Dio. Ho odiato me stessa, la mia incapacità nell’abbattere l’ingiustizia di colei che aveva l’autorità per dirmi che ero stupida, ma non doveva avere l’autorevolezza di farmi sentire tale. Non le dovevo permettere di averla. La matematica mi ha sempre fatto schifo. Non esiste nulla di più esatto delle parole, nulla di più scientifico”.

“Ho sempre saputo di non essere la più intelligente della mia classe, ma dovevo, comunque, essere capace, dovevo riuscire a demolire quell’immagine di stupida che si stava insinuando nella mia testa. Dovevo distruggere quella convinzione che faceva capoccella in me” scrive ancora Chiara Francini.

“Quella paura. E come un mantra, per tutto il liceo, ripetevo una frase di mia madre: ‘Non ti devi mai preoccupare, se non è un male che il prete ne goda’. Il prete ‘gode’ quando muore qualcuno, perché col funerale da officiare gli verrà fatta una donazione. Sì, mia madre – sempre usando immagini gioiose – mi stava dicendo qualcosa che mai avrei dimenticato: ‘Non devi preoccuparti se non è qualcosa che riguarda la salute. Non è così importante. Andrà bene per forza. Sii forte di questo. Sarà, comunque, un successo'”.

“Mia madre mi stava consegnando qualcosa che non mi avrebbe mai abbandonato: la speranza nella tragedia. La certezza che il mio odio per la paura, l’odio per ciò che mi faceva male, e che quindi era male, era sacrosanto. E che mi avrebbe salvato. Odiavo l’ingiustizia, la mia paura, il mio essere maltrattata” si legge ancora.

“L’odio per ciò che è male è il bene supremo. Ma nessuno lo dice mai. E ogni giorno lo ripetevo. Distruggila. Distruggi. Deve morire. Morire”.

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