Vivere ai margini
Le periferie sono i laboratori della società del futuro
Quando, nel 1999, sono
andato a viverci, il posto era chiamato Riruta Satellite. Era un
grande quartiere di circa 80mila abitanti alla periferia di Nairobi.
Oggi, nelle stessa area, gli abitanti sono circa 200mila e
Riruta Satellite si è frazionata in altri quartieri: Ndurarua,
Satellite, Railway, Kabiria, Kivuli.
La mia residenza è a
Kivuli, periferia di Kabiria, periferia di Satellite, periferia di
Rituta, periferia di Nairobi, periferia dell’Occidente. Le periferie
si espandono e il centro si allontana sempre più. Il centro, dove c’è
la vita vera, quella che si vede in televisione, dove ci sono
ricchezza e potere.
Nelle metropoli africane, Il numero degli abitanti continua a crescere
vertiginosamente,confermando una tendenza globale: per la
prima volta nella storia, da un paio d’anni le persone che vivono
nelle città superano quelle che vivono nelle zone rurali.
Nelle
grandi metropoli come Nairobi, oltre il 50 per cento dei cittadini vive nelle periferie degradate e nelle
baraccopoli, sorte illegalmente su spazi che non appartengono a chi ci
vive.
A Riruta, che
propriamente non è uno slum o baraccopoli perché i lotti di
terreno, pur piccoli, hanno un legittimo proprietario, le strade sono
in condizioni disastrose; le fognature, la rete elettrica, quando ci
sono, raggiungono solo le strade principali.
La rete telefonica è
diventata inutile e obsoleta a cause dell’onnipresenza dei telefoni
cellulari. La stazione di polizia è un insieme di baracche in
lamiere arrugginite, segno della scarsa considerazione che lo Stato
dà a questo quartiere.
Scuole pubbliche e servizi sanitari sono
assolutamente inadeguati, come testimonia
il proliferare di dispensari e scuole private, anche queste di scarsa qualità,
frequentate da chi non ha migliori alternative.
Negli ultimi due anni
sono iniziati i lavori per il miglioramento almeno della strada
principale e della rete fognaria, ma procedono con lentezza
esasperante.
Si viene a vivere qui perché costa meno che vivere più
vicino al centro, ma il vivere qui rafforza quotidianamente, in mille
modi sottili, la consapevolezza di essere gli ultimi, di non contare
niente, di vivere ai margini della società.
La persone importanti
vivono altrove, i fatti importanti succedono altrove. Gli unici
fatti rilevanti che accadono qui sono gli occasionali crimini, ma
spesso non sono neanche giudicati degni di menzione nei mass media.
Eppure, per quanto possa
sembrare incredibile, questa Riruta, periferia delle periferie, è
per molte persone una meta agognata, il traguardo che promette la
fine di tutte le sofferenze, il sogno di un futuro migliore mantenuto
vivo attraverso lettere di amici che vi ci si sono stabiliti già da
qualche anno.
Chi vorrebbe vivere a Riruta? Per esempio chi vive
nelle zone rurali dove servizi sanitari e scuole sono pochi e sparsi
su vaste aree. O i giovani che coltivano il sogno di migliorare il
proprio livello di educazione, e di accedere a opportunità di
lavoro diverse dall’agricoltura o pastorizia di sopravvivenza.
Vogliono vivere a Riruta anche le migliaia di disperati che sono arrivati in Kenya da Sudan, Sud Sudan,
Somalia, Rwanda e Burundi, forzati a risiedere nei campi
rifugiati. Ancora più lontani dal centro, ancora più ai margini, in
località aride, dove vivere significa dipendere dalle razioni
alimentari della carità internazionale. La crescita travolgente di
Riruta è soprattutto dovuta all’immigrazione da queste aree ancora
più marginali.
Così chi vive qui è doppiamente ai margini. Alla periferia della città
ma anche alla periferia delle cultura tradizionale di provenienza.
Caso emblematico è Harrison, che fa il catechista volontario in una
delle tante chiese locali. Viene dalla riva del lago Vittoria, 400
chilometri da Riruta, da una famiglia di pescatori.
Terminata con
difficoltà la scuola superiore ha deciso di venire in città per
lavorare e frequentare un college
la sera. Ma son passati dieci anni, ha fatto pochi esami al college e
fa solo lavori occasionali di manovalanza. Ogni volta che riesce
ad accumulare un piccolo gruzzolo per pagare le tasse universitarie
succede qualcosa al villaggio e gli viene chiesto di contribuire: il
funerale di un parente, i testi scolastici per un nipote, il costo di
un ricovero ospedaliero della sorella minore.
La tradizione
comunitaria vuole che ogni familiare contribuisca a questi costi,
tanto più uno che vive lontano nella ricca città. Harrison non può
rifiutarsi. La tradizione vuole anche che Harrison, in quanto
primogenito, sia il primo a sposarsi e costruisca la sua casa vicina
a quella del padre. Se non lo fa, i fratelli non possono sposarsi a
loro volta.
Così Harrison finisce per esaurire le sue minime risorse
economiche per continuare a sentirsi parte di una posto in cui non
vive, e nello stesso tempo è emarginato nella grande Nairobi, sul
posto degli occasionali lavori, dove i valori importanti non sono
comunità e condivisione, ma efficienza e potere economico.
Harrison
vive in una terra di mezzo, se non avesse il sostegno della comunità
cristiana potrebbe, come tanti, soccombere alla depressione,
all’alcool o alla droga. Lui non ha perso il senso
dell’ironia.“Riruta
– mi dice – è
una metafora della vita. Qui se chiedi a chiunque la sua origine ti
dice che proviene da qualche altra parte del Kenya. Chi potrebbe
essere orgoglioso d’essere nato qui? Siamo tutti di passaggio, in
attesa che si apra la possibilità di una vita vera e dignitosa. Per
qualcuno di noi questa vita vera incomincerà soltanto nell’altra.”
A
Riruta non ci sono solo storie drammatiche. Le periferie sono, per
chi è capace di vedere, anche i laboratori della società del
futuro. Qui la società muta, inventa nuove forme di sopravvivenza.
Nei quartieri della Nairobi ricca si rinforzano le siepi divisorie
con filo spinato, ci si chiude dietro alti muri, si aumentano i fari
per illuminare a giorno i dintorni delle ville e si moltiplicano le
guardie notturne – tutti poveracci che di giorno vivono in quartieri
come Riruta e di notte proteggono i ricchi – così che nessuno turbi
il mondo dorato in cui si vive. Invece nelle periferie nascono
e crescono tutti i fermenti di questa società. Alcuni sono fermenti
di violenza e di odio, ma altri sono fermenti di solidarietà e
dignità.
Qui c’è Lionel che a
meno di trent’anni sta preparandosi la morte per alcoolismo, ma che
dipinge dei quadri in cui la vita esplode con le più straordinarie
forme e colori. C’è Adhiambo, che vive in una baracca, lavora da
commessa, e la sera con un computer da museo scrive racconti per
bambini.
C’é Juma, il tecnico di computer che dopo una giornata di
lavoro, mentre la moglie prepara la cena su un fornello a carbonella
e i figli fanno i compiti, lavora su un portatile per sviluppare un
nuovo software.
E c’é Anjela, che vuole avviare un gruppo di
sostegno per le coetanee sieropositive. La periferia, per chi crede e
vuole lasciarsi rinnovare, è l’ incontro col Dio che non tiene
niente per sé, che viene dal basso, che ti guarda con gli occhi dei
piccoli, ti comunica sapienza con la voce delle prostitute, ti
benedice con la voce del vecchio che sta per morire.
Nelle periferie c’è chi
non ha niente da perdere, e si gioca tutta la vita su un numero solo,
puntandoci con tutta la perseveranza e creatività che possiede. Le
periferie sono terreno recettivo e fertile per il Vangelo. Le
beatitudini sono ascoltate da occhi e cuori aperti. Qui siamo ai
margini della città, certamente non ai margini della vita.