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Un film vale più di mille artcoli

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Ecco "Border" la pellicola di Alessio Cremonini sulla tragedia siriana

Un film sulla tragedia siriana? Quando lo sceneggiatore e regista Alessio Cremonini chiamò proponendomi di collaborare a questo progetto stavo sbraitando contro l’allora amministratore delegato del giornale per cui lavoravo che non mi pagava da secoli. “È davvero molto interessante, vediamoci subito”, risposi. Ancora una volta la mia vita correva su due binari paralleli, quello economico, disastroso, e quello creativo, attivo e imprevedibile come un vulcano. Dovevo ripartire per il Libano, avevamo poco tempo ma ci trovammo subito d’accordo su molti punti. Il primo era quello di non fare una cronistoria di ciò che stava accadendo in Siria, l’obiettivo del film non era raccontare la storia del Paese o della sua dittatura, bensì mettere in luce la sofferenza di un popolo. Per farlo bastava prendere spunto dalla cruda realtà dei fatti.

Alessio Cremonini mi raccontò la storia che aveva in mente, quella della fuga di due sorelle dalla Siria alla Turchia, un viaggio che conoscevo bene e che non sempre aveva un lieto fine. Da lì partì la nostra naturale divisione dei ruoli, insieme abbiamo fuso cinema, fiction e cronaca. Abbiamo lavorato in totale sinergia nonostante la distanza. Abiti, alberi, casali, animali, scarpe, tende, sigarette, portoni e finestre erano i temi su cui dibattevamo via mail parlando delle ambientazioni. “Come sono i rubinetti in Siria?” mi chiese una volta. Scoppiai a ridere, provai a descrivere il rubinetto della cucina della mia casa di Damasco, pensai che un buono sceneggiatore deve essere anche un po’ idraulico.

 A dicembre l’idea del film mi aiutò a superare un momento terribile di crisi. Scrivevo di bombardamenti, massacri, autobombe e piccoli siriani che morivano di polmonite perché non potevano ripararsi adeguatamente dal freddo nelle tende. Iniziai a identificare il mio lavoro con le disgrazie degli altri. Se all’inizio aveva senso perché “bisognava parlarne” col trascorrere dei mesi, poi degli anni, iniziava a sembrare un mero esercizio riempitivo delle pagine degli “Esteri”. Nel tempo ho alternato momenti di grande distacco dalla sofferenza altrui a momenti ti eccessiva compassione, con tanto di sfoghi davanti a scene spesso neanche particolarmente violente.

Una volta accadde con una donna di 50 anni, Khadija, madre di quattro figlie e nonna di 15 nipoti, vivevano tutti e 20 in un bilocale senza acqua e corrente nel campo profughi palestinese di Shatila a Beirut. Erano siriani di Homs. La donna di cui ormai non ricordo più bene i tratti del volto, mi fece vedere le sue mani rigate dall’acqua fredda. “Lavo i panni di venti persone a mano, tutti i giorni – disse – potete chiedere all’Onu darci una lavatrice?”.

Avrei telefonato a Ban Ki Moon in quell’esatto istante per risolvere il problema di quella signora, ma non avevo il suo numero! A cosa serve un film? Mi chiesi. Forse a dare voce alle mille signore Khadija, vittime di una guerra atroce ed evitabile come quella siriana. Forse a spiegare oltreconfine come reagisce la gente “normale” davanti ad eventi straordinari.

Voglio ringraziare Alessio Cremonini per avermi dato l’opportunità di collaborare a questa grande impresa grande per il suo valore simbolico. Forse l’unico film sulla Siria mai prodotto in Italia. Voglio ringraziare poi il cast di attori, tutti italosiriani, in particolare la piccola Sara presente anche nel video su Border pubblicato il 4 luglio sul Corriere.it; ha gli occhi dello stesso colore degli smeraldi della moschea degli Omayadi di Damasco, è lì che spero possano tornare a risplendere molto presto.

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