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Ripensare la democrazia

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A 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino, il mondo è in profondo cambiamento

Il prossimo 9 novembre saranno 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino.

Un evento campale per il popolo tedesco, avviato alla riunificazione, e simbolico per la comunità internazionale che avrebbe visto da li a poco sgretolarsi lo schema ereditato da Yalta e dal II° dopoguerra.

Un anniversario di questo tipo non può che spingere opinionisti ed esperti verso bilanci su ciò che è stato e sulle prospettive per il futuro.

In questo senso si parla incessantemente dell’ormai celeberrima definizione di Francis Fukuyama secondo cui, a seguito della conclusione della Guerra Fredda, si sarebbe assistito alla “Fine della Storia”. Una sconfitta del fronte comunista infatti non poteva che portare quei regimi dell’est Europa a un uniformarsi verso il credo liberaldemocratico di matrice occidentale, unico rimasto sulla scena.

Non è stato così, anche se ci si è messo qualche anno per capirlo. E oggi assistiamo non “Alla Fine della Storia” ma alla “Convivenza delle Storie”, di tante storie che riguardano cultura, religioni e aree geopolitiche quanto mai diverse tra loro.

Tutti dunque si concentrano su quanto Fukuyama abbia sbagliato. Ma nessuno si pone un interrogativo per certi versi ancor più importante: perché Fukuyama ha sbagliato?

Guardiamoci intorno: il mondo occidentale (e con questa espressione incautamente unisco Europa con Nord America) vive un periodo di crisi economica che si tramuta anche in crisi politica (basti pensare ai molti movimenti anti-sistema presenti nel Vecchio Continente che intendono compromettere lo status quo).

La Russia sembra aver ritrovato slancio in nome del concetto “Paese guida del mondo slavo e ortodosso” e la Cina preserva la propria oligarchia dirigente grazie a un cambio sostanziale di regime avviato da Deng Xiaoping (ma a piazza Tienanmen mettiamo il ritratto di Mao…).

Il Medio-Oriente continua a essere una polveriera con i regimi arabi quanto mai poco propensi a trasformarsi in democrazie sulla falsariga dello spirito delle Primavere Arabe.

Il tutto all’interno di un quadro in cui l’estremismo religioso di ascendenza islamica ritorna con prepotenza al centro della scena, e il continente africano non trova ancora bene una propria quadra.

Per certi versi guardando a uno scenario così siffatto ci si rende conto di quanto sbagliata fosse l’analisi di Fukuyama: mondo slavo, religione ortodossa, cultura, islamismo…potranno mai concludersi “Storie” di questo tipo? No, se non col mondo stesso.

Il quesito dunque rimane e si fa sempre più grande: come si spiega l’errore?

Si spiega nella misura in cui per certi versi la democrazia, accantonando del tutto alcuni suoi valori, si è trovata a essere in una particolare contingenza storica la più grande alleata del materialismo socialista d’ascendenza marxista. E questo non tanto per un cambio di approccio del mondo occidentale verso il “nemico” sovietico in una certa fase della Guerra Fredda.

Ma perché anche la liberaldemocrazia a tratti ha assunto connotati estremamente “materiali” e economicistici rendendosi diversa al comunismo non dal punto di vista dei valori, ma solo dal punto di vista della sua organizzazione pratica.

Due diverse concezioni ma che partivano da un comune presupposto: quello economico. Da parte sovietica si partiva dal dato economico per trarne delle conclusioni e delle scelte politiche. Da parte statunitense si partiva dallo stesso punto per trarne conclusioni del tutto opposte.

Il problema era che il punto di partenza era lo stesso. Da qui la conclusione che, venuto meno un sistema, ne sarebbe rimasto solo l’altro in campo. Perché il rapporto era dicotomico, il principio era comune, le sue declinazioni erano due. Venuta meno una declinazione, sul campo la storia finiva tra le braccia di quell’ultima declinazione.

Si ignorava del tutto che il mondo e la società possono sì avere più declinazioni, ma anche molteplici punti di partenza. Al centro dell’individuo possono starci anche aspetti o valori diversi dal denaro, dal salario e dal lavoro stesso.

Da qui un ritorno alla politica in certe aree del mondo come aspetto valoriale, messianico, in grado di attrarre e di dare un senso alla vita. Perché certi interessi e certi spiriti difficilmente possono essere sopiti, dal momento che il mondo stesso si è edificato su questi pilastri.

Una situazione dunque che, a 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino, ci ricorda quanto la sfida della nuova frontiera della politica non può tecnicamente essere l’annientamento di un sistema o di un avversario. Ma se mai quella dell’istruzione, l’unica in grado di portare a un sistema di comunicazione e di comprensione tra popoli, etnie e principi secolarmente diversi tra loro.

Al tempo stesso, Berlino ci insegna che quel mondo desideroso di definirsi “liberaldemocratico” può uscire da questa spirale discendente solo puntando su due aspetti: più democrazia (perché non serve emulare il vicino di successo se quel tuo stesso vicino è profondamente diverso da te) e più valori. E più valori vuol dire anche aprire una pagina del tutto nuova per noi. Non figlia di scheletri del passato, di retaggi e di tristi eredità del materialismo dialettico.

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