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Il grande furto della terra

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ActionAid denuncia l’aumento di casi di landgrabbing da parte di imprese straniere nei paesi in via di sviluppo

Nel 1893, negli attuali Stati Uniti d’America, si svolse una corsa senza precedenti per aggiudicarsi la terra dell’Oklahoma poiché, come ricorda Piero Riccardi in un servizio di Report, «a chi arrivava nel nuovo mondo in cerca di fortuna il Governo rispondeva ‘Volete un pezzo di terra? Ad Ovest ce n’è tanta, basta prendersela’». Quello che c’era ad Ovest, però, non erano gli solo sconfinati ettari di terreno, ma anche le popolazioni di nativi americani che su quei terreni avevano sempre vissuto.

Inutile dire che nella grande corsa alla terra dell’Oklahoma i nativi americani non furono interpellati.

A distanza di oltre un secolo cambiano i luoghi, i mezzi e gli uomini, ma non cambia la corsa all’appropriazione di terre altrui, con gravi conseguenze per le popolazioni autoctone, mai coinvolte nei processi decisionali sui loro possedimenti.

Si chiama landgrabbing, accaparramento di terre, quella serie di investimenti volti ad acquisire il controllo di enormi estensioni di terreni sia per una produzione destinata all’export, sia per impieghi puramente speculativi.

Stando ai dati raccolti da Land Matrix, dal 2000 sono stati documentati più di 1.600 accordi per l’acquisizione di terre su larga scala, coprendo un’area di oltre 60 milioni di ettari (più della superficie della Spagna intera). Tra i dieci paesi nei quali sono più frequenti fenomeni di landgrabbing, sei si trovano nel continente africano e nel 78% dei casi le imprese straniere dialogano con governi deboli, con un evidente squilibrio di forze all’interno della trattativa.

«I governi si rivolgono ai capitali privati per colmare il deficit enorme della spesa pubblica, ma troppo spesso questa cieca corsa ai finanziamenti porta all’espropriazione di terreni, lasciando le comunità locali senza terra, senza casa e affamate. La crescita non può essere ottenuta a scapito dei più poveri e dei più vulnerabili» dice Antoine Bouhey, campaign manager di ActionAid.

Secondo Oxfam, quasi due terzi degli accordi coinvolgono paesi nei quali larga parte della popolazione soffre la fame, eppure la maggior parte dei prodotti degli investitori stranieri sono destinati all’esportazione, aggravando ulteriormente le condizioni delle popolazioni locali, le quali non possono godere né della terra per coltivare e pascolare, né dei prodotti di tale terra.

Avevamo già parlato di landgrabbing, in particolare del coinvolgimento del gruppo italiano Tampieri Financial Group nell’appropriazione di 20.000 ettari della riserva di Ndiael, in Senegal.

La corsa all’accaparramento della terra, però, non si esaurisce nel solo caso senegalese. Nell’ultimo rapporto presentato da ActionAid sulla questione, “Il grande furto della terra“, sono trattati anche i casi di Cambogia, Sierra Leone e India.

Per quanto riguarda la Cambogia, dal 2006 quasi 2.000 famiglie residenti nelle provincie di Oddar Meanchey, Kampong Speu e Koh Kong hanno subito le conseguenze delle Concessioni Economiche di Terra (ELC) a favore di compagnie, sia locali che internazionali, per lo sfruttamento dei terreni.

Le popolazioni autoctone negli ultimi anni hanno ripetutamente chiesto la restituzione della propria terra, rivendicando i propri diritti legittimi come previsto dalla legge cambogiana, senza però ottenere risultati. Anzi, coloro che si sono opposti alla politica di landgrabbing, sono andati incontro a episodi di intimidazione e violenza fisica.

Il 97% delle principali esportazioni della Cambogia è diretto verso l’Unione Europea sia grazie a benefici derivanti da accordi commerciali preferenziali, sia grazie all’iniziativa “Everything But Arms” (EBA) che offre incentivi agli investitori internazionali per produrre sul suolo cambogiano, dove vi sono costi di produzione ed esportazione contenuti.

In Sierra Leone, una sussidiaria della svizzera Addax Petroleum, grazie a finanziamenti derivanti da fondi di sviluppo europei e dalla Banca Africana di Sviluppo, ha dato vita a un progetto per la produzione di etanolo da canna da zucchero per il mercato europeo. L’iniziativa ha colpito oltre 13.000 persone, impattando in negativo sui loro diritti, sulla loro sicurezza alimentare e sulla loro sussistenza. Non solo, ma stando ad un recente calcolo effettuato da ActionAid, il progetto della Addax rappresenta un investimento non remunerativo anche per il governo della Sierra Leone, dato che si stima che gli incentivi fiscali concessi alla società svizzera produrranno, nel periodo 2013-2022, un mancato introito di più 140 milioni.

In India si è conclusa positivamente, dopo dieci anni, la battaglia di ActionAid al fianco delle popolazioni Kondh dell’Orissa contro la deturpazione di un territorio considerato sacro. Il Ministero dell’Ambiente indiano ha infatti respinto il progetto dell’industria inglese Verdanta, che prevedeva l’occupazione del monte Niyamgiri per l’estrazione di bauxite.

Se il progetto fosse stato approvato, le fonti di sussistenza tradizionali da cui dipendono migliaia di persone delle popolazioni Kondh sarebbero state distrutte.

Sulla base delle esperienze accennate e, soprattutto, del lavoro quotidiano e diretto che ActionAid svolge nei paesi considerati, emerge come questa tipologia di investimenti, piuttosto che stimolare una crescita economica, tenda a ridistribuire le risorse verso l’alto, accentuando le disuguaglianze nell’accesso alla terra.

Per questa ragione l’organizzazione, con la sua presenza sui territori in partnership con ONLUS locali, lavora per sostenere e migliorare la sussistenza rurale attraverso quattro direttrici: garantire i diritti delle donne e delle comunità alla terra e alle risorse naturali; promuovere sistemi di produzione di cibo sostenibili e in grado di adattarsi al clima; garantire relazioni più giuste nei mercati; Adottare un approccio integrato per l’empowerment delle donne.

 

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